Francesco Piccolo, Scrivere è un tic

La fioritura delle scuole di scrittura e la pubblicazione ogni anno, anche in Italia, di una quantità di libri che eccede la possibilità di leggerli non dico tutti, ma in buona parte, confermano ciò che gli editori da tempo vanno ripetendo: ancora poco e il numero degli autori supererà quello dei lettori. Fa bene, perciò, Einaudi a ripubblicare, a trent’anni dalla sua uscita, “Scrivere è un tic” di Francesco Piccolo. Questo agile saggio si presenta come una raccolta di testimonianze relative allo scrivere, testimonianze – oltre il centinaio – fornite da scrittori più o meno famosi: da Moravia a Volponi, da Eco a Starnone, da Mark Twain a Hemingway, da Balzac a Marcel Proust, da Henry Miller a Isaac B. Singer.

Nessuno di loro ha mai dubitato che lo scrivere non fosse un mestiere. Ma non nel senso che garantisce un guadagno, al pari della professione di commesso, commerciante, insegnante, medico, avvocato, farmacista. No. Lo scrivere è un mestiere perché richiede un apprendistato, richiede fatica e sacrificio, richiede un metodo e una disciplina. Il talento – l’ingenium dei latini – non basta, non è mai bastato, così come non basta nascere con una innata predisposizione alla danza e alla musica per diventare ballerini e musicisti. Sono necessari lo studio, l’esercizio, la tecnica. Naturalmente, poi, e Francesco Piccolo offre tantissimi esempi, ciascuno scrittore ha ritagliato allo scrivere uno spazio – fisico e temporale – che non coincide necessariamente con quello di un suo collega. 

Moravia scriveva appena alzato, Kafka dopo essere rientrato dall’ufficio ed essersi un po’ riposato nella sua stanza, Claudio Magris e Tomasi di Lampedusa scrivevano al caffè, Don DeLillo e Domenico Rea a casa. Ognuno di loro, però, non ha mai confuso la vita con la scrittura, nel senso che non ha mai creduto che bastasse vivere per essere poi in grado di raccontare artisticamente quanto fatto, veduto, provato. Se il talento è la condizione necessaria per poter iniziare a pensare allo scrivere come a un mestiere, la fatica e la costanza vengono subito dopo e possiedono pari importanza, se è vero che la riscrittura e la correzione, senza le quali si rischia di restare a livello di imbrattacarte, rifuggono l’improvvisazione e i tempi veloci. Il passo che segue è tratto dall’Introduzione e spiega bene la genesi di “Scrivere è un tic”..     

“Questo libro l’ho scritto trent’anni fa, quando non ero uno scrittore, quando avrei tanto desiderato esserlo. In realtà, e più precisamente, l’ho pubblicato trent’anni fa, ma l’ho scritto negli anni precedenti, per molto tempo, da quando ero ragazzo. Anzi, non era nemmeno un libro, né avevo mai pensato che potesse diventarlo, o che lo sarebbe diventato. Prendevo appunti su una serie di fogliettini; avevo (e ho) la fissazione del riciclaggio della carta, quindi cercavo qualsiasi foglio dattiloscritto che avesse il retro in bianco, lo dividevo in quattro parti e con un titoletto che riguardava il contenuto della citazione – un modo per rintracciare la parentela con altre citazioni – trascrivevo pagine e pagine di scrittori che raccontavano come scrivevano, per quanto tempo, dove, come avevano cominciato e perché. Lo facevo per far capire agli altri cosa significa scrivere – e in questo modo, potevo capirlo meglio io. Che era poi la finalità più profonda del lavoro. Era una mia ossessione. Pensavo che scrivere fosse la cosa che amavo di più nella vita, quindi avrei fatto di tutto per riuscire a trasformarlo nel mio mestiere – no, non è vero, questo lo dico adesso perché è diventato il mio mestiere, ma quando scrivevo in quei fogliettini non era nemmeno un’ipotesi lontanissima fare questo mestiere; però era un’ipotesi imparare a scrivere, cercare di scrivere meglio, visto che mi piaceva così tanto. Quando poi l’ho pubblicato, a quel punto sì, speravo diventasse il mio mestiere”.

Francesco Piccolo, Scrivere è un tic, Einaudi, Torino 2024

a cura di Francesco Ricci