Fiction & Libri

Gigi Paoli, Il respiro delle anime

Il passaggio dalla cronaca nera, dalla cronaca giudiziaria, al noir non è affatto scontato. Le qualità, infatti, che fanno di un giornalista un buon giornalista non coincidono necessariamente con quelle di cui dispone – deve disporre – uno scrittore di gialli. A meno, infatti, che il libro non voglia ridursi a una fedele e documentata ricostruzione di un delitto, il romanziere è chiamato a confrontarsi non solo col vero, ma anche col verosimile (a ciò che non è accaduto, ma che sarebbe potuto accadere), a illuminare le regione anche più recondite dell’animo dei personaggi, a tenere desta l’attenzione del lettore, a chiarire il percorso di ricostruzione degli eventi seguito dall’investigatore, ricostruzione nella quale l’intuito e la buona sorte possiedono sovente un peso analogo a quello della deduzione.

Leggendo il secondo romanzo di Gigi Paoli, Il respiro delle anime, appare del tutto evidente che suddetto passaggio, per quanto non scontato, è però possibile, dando luogo a risultati apprezzabili e molto interessanti da un punto di vista squisitamente letterario. Ciò discende anche dall’evoluzione che il genere giallo ha conosciuto nel corso degli ultimi decenni e che ne ha fatto, come hanno osservato, tra gli altri, Ian Rankin e Valerio Evangelisti, uno strumento privilegiato di indagine del presente, dei suoi problemi, delle sue contraddizioni. Di conseguenza, l’inchiesta condotta dal cronista Carlo Alberto Marchi relativa a un’impennata delle morti per overdose a Firenze e al misterioso investimento di un ciclista, in una notte di luglio, vicino al nuovo Palazzo di Giustizia, diviene l’occasione per parlare anche degli interessi, dei profili umani, delle zone d’ombre del capoluogo toscano (“E anche fra quelle statue, simboli ambivalenti di arte luminosa e buia morte, si capiva che Firenze non era una città buona, non lo era mai stata”), i quali rimandano – né potrebbe essere altrimenti nell’epoca della globalizzazione mondiale – a quanto accade oltreoceano.

Dimensione verticale (penetrare sempre più nel problema, rinvenire il filo rosso che lega le tante morti) e dimensione orizzontale (gettare uno sguardo ampio e imparziale sulla Firenze di questo terzo millennio) vengono così felicemente a saldarsi nel libro di Gigi Paoli, che pare destinato a bissare il successo del suo romanzo d’esordio, Il rumore della pioggia. Nel passo che segue, tratto dal primo capitolo, viene descritto l’arrivo di medici e forze dell’ordine chiamati da un testimone dell’incidente notturno.

“La macchina rallentò perché di lì a poco si sarebbe dovuta fermare. La luce blu del lampeggiante inondava la strada che, di solito, era uno sciame ininterrotto di auto impazienti. Di solito. Non alle tre e mezzo del mattino, l’ora in cui le macchine e le persone si contano sulle dita di una mano. E i poliziotti sono una di quelle dita. La voce metallica rimbalzò nell’assonnato abitacolo dell’Alfa Romeo, ormai in fondo alla rampa del viadotto dell’Indiano, una delle principali porte d’accesso a ovest della città assieme all’autostrada. Che era lì a un passo, come l’aeroporto. “Verona due-undici da Doppia Verona ventuno.” Il sovrintendente capo Lorenzo Rindi del compartimento della polizia stradale di Firenze si scosse dal torpore ipnotico che gli provocava l’osservazione del deserto paesaggio notturno. “Stiamo rientrando, abbiamo finito. Che vogliono ancora?” sbuffò allungandosi sul sedile per prendere il microfono. La chiamata era per lui, anzi per loro: il sovrintendente capo Rindi e l’agente scelto Faggi della pattuglia Verona due-undici in servizio sulla strada di grande comunicazione Firenze-Pisa-Livorno. Doppio Verona ventuno era la centrale. “Avanti. Comunicare”. “407”. Il sovrintendente odiava parlare a codici. Ma perché non mi chiedono dove sono e dove sto andando invece di dire un numero? Vecchia storia. Vecchia scuola. Ma si adeguò, come sempre”.

 

Gigi Paoli, Il respiro delle anime, Giunti, Firenze 2017

 

a cura di Francesco Ricci

foto di Rémy SAGLIER

Francesco Laezza

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