“Tiro mancino” di Giovanna Romano è un libro che si apre col presente indicativo (“Mi aspetta con la porta aperta”) e si chiude col passato prossimo di un verbo – “sperare” – che con la sua semplice presenza schiude, ogni volta che viene impiegato, una porta sul futuro: “E soprattutto c’è un figlio a cui ha promesso una medaglia olimpica. Non una qualsiasi, ma l’unica che manca alla collezione: quella di fioretto”. Tra questi due estremi temporali, il presente e l’avvenire, si snoda l’esistenza di Matteo Betti, il campione di scherma paralimpica, che di “Tiro mancino” è il protagonista. E dire che Giovanna Romano, nel raccontarci la storia di questo grande atleta, recupera episodi che appartengono anche a un passato molto lontano: la nascita, il 26 novembre 1985, le visite in cliniche e ospedali specializzati (Matteo è nato con un’emiparesi destra provocata da un’emorragia), la fisioterapia, la scuola, gli allenamenti di scherma e i primi impegni agonistici. Eppure, l’impressione che resta nel lettore, una volta giunto alla fine, è che il cuore del libro – cuore sentimentale, intendo, e cuore concettuale – sia non ciò che a Matteo è accaduto (e quanto lui ha già fatto), ma quanto a Matteo da qui in poi potrà accadere (e quanto lui potrà ancora fare): l’asse presente-futuro relega ai margini l’asse presente-passato.
Giovanna Romano con grazia e con sensibilità, infatti, trasmette il senso di un’esistenza, quella del protagonista, a determinare la quale il guardare in avanti conta infinitamente di più del guardare indietro. Sotto questo aspetto, il breve passo citato, relativo alla promessa fatta al figlio, in chiusura del quinto capitolo, a me pare contenere ed esprimere alla perfezione la tenace fiducia che Matteo nutre nella possibilità di non lasciarsi rinchiudere entro i limiti angusti, talora angustissimi, che la vita sembra volerci riservare: noi non siamo ciò che si è, noi siamo ciò che possiamo diventare. Di conseguenza, “Tiro mancino” deve essere considerato un libro-testimonianza in una duplice accezione di significato. Da un lato, esso si fa testimone di un’esistenza, quella di Matteo Betti, che possiede una sua specificità che la rende unica, insostituibile, particolare: a essere narrata, insomma, è la sua esistenza e solamente la sua. Dall’altro lato, però, il libro possiede un valore universale: a chiunque si venga a trovare in una condizione di malattia o menomazione (come Alberto, ad esempio, il giocatore di quattordici anni a cui è dedicato il capitolo “Il giovane Padawan”) esso mostra, con la forza della verità dei fatti (non delle semplici buone intenzioni), che l’essere umano sa essere più forte della malattia e della menomazione: la “comunione nella mancanza” molto spesso costituisce il punto di partenza della “comunione nel riscatto”. Il passo che segue è tratto dal primo capitolo. Il libro è arricchito dalla Presentazione di Carlo Paris e dall’Introduzione di Luca Pancalli (Presidente Comitato Italiano Paralimpico), oltre che dall’Appendice scritta da Matteo Betti.
“Quando Eva-Maria Kunz arrivò in sala travaglio le contrazioni erano iniziate da quattro giorni: il suo primogenito sarebbe dovuto nascere il 12 dicembre ma aveva deciso che non poteva aspettare. Lei, giovane ventenne minuta nata a Zurigo, un italiano ancora incerto e nessuno con cui confrontarsi sulla maternità, aveva passato la giornata nel negozio di frutta e verdura che aveva aperto meno di un anno prima. Educata a non stare mai con le mani in mano, aveva trascorso tutta la gravidanza lavorando: una piccola eredità dalla Svizzera le aveva permesso di acquistare la licenza e iniziare l’attività dopo aver studiato per ottenere le certificazioni necessarie. Un piccolo grande sogno che cresceva in parallelo con la sua prima esperienza di maternità. Quel venerdì sera, ai primi dolori, con il marito si erano presentati in ospedale per essere rimandati a casa rassicurati che i tempi non erano maturi per una primipara. Quarantotto ore dopo, il lunedì mattina, con le acque rotte e le contrazioni sempre più frequenti e dolorose, un nuovo ricovero in ospedale, questa volta per far nascere Matteo.L’amore di Eva per Siena aveva radici lontane, in quel viaggio dei genitori verso Ischia alla fine degli anni ’50. La tappa toscana affascinò così tanto la madre che promise a se stessa che sarebbe tornata. Una promessa mantenuta dopo il divorzio quando prese Eva, suo fratello, il cane e il gatto e con una Fiat 500 partì da Berna per trasferirsi un anno nella città del Palio. Era il 1967”
Giovanna Romano, Un tiro mancino, Betti, Siena 2021
a cura di Francesco Ricci