“Parlavano di me”, la raccolta di racconti di Giuseppe Grattacaso edita da Effigi, è un libro sulla cattiveria dell’uomo. Cattiveria gratuita, sia chiaro (e perciò tanto più detestabile), finalizzata, cioè, non al conseguimento di uno scopo, bensì espressione di un’indole malvagia, superficiale, apatica. Cattiveria senza tempo, è evidente, inevitabile per chi è stato segnato dal peccato e dalla colpa, ma, al contempo, accresciuta dall’allentarsi progressivo dei vincoli comunitari e familiari, travolti dal moderno e cinico individualismo. Il dileggio e le minacce rivolte a un ragazzone affetto da problemi psichici, i colpi bassi tra aspiranti veline, l’arroganza di un poliziotto nei confronti di un gruppo di immigrati, di nazionalità diverse, in attesa da ore davanti al palazzo della Questura: sono solamente alcune delle tante manifestazioni della cattiveria umana che il lettore incontra in “Parlavano di me”. Né può bastare, a riscattarla, la complicità di un amico, la comprensione di un collega, l’aiuto offerto a uno sconosciuto. Sono gesti, infatti, sono atti che possiedono un respiro breve, che non giungono a incidere in modo duraturo sulla natura dei rapporti sociali, natura che continua ad avere nell’egoismo e nello spirito di sopraffazione i suoi tratti distintivi. Non solo, ma in questo libro anche la distinzione tra chi compie il male e chi lo subisce, tra chi ha successo e chi viene sconfitto, tra chi, in amore, lascia e chi viene lasciato, appare estremamente sfumata, se è vero che alla fine nessuno riesce a essere felice. E il ricordo di quando la vita si mostrava a noi con la sua corolla aperta di possibilità, acuisce, anziché lenire, la sofferenza legata al presente: siamo tutti creature deragliate e deluse. Il passo che segue è tratto dal racconto intitolato “La crepa”:
“Silvane aveva le lacrime agli occhi. Quel caldo, che fino ad allora era una presenza fluida e appiccicosa che saliva dalla terra era diventato una lastra palpabile che li schiacciava incollandoli al marciapiede. “Ci sei nell’elenco? Dimmi, ci sei in quel cazzo d’elenco?” urlò il poliziotto. Silvane si guardò intorno. Gli uomini ora assistevano alla scena con una strana attenzione- Nessuno aveva voglia di ridere. Tutti sapevano che doveva accadere qualcosa. La giovane madre con il bambino in braccio rimase immobile. Silvane sentì che le gambe le dolevano. Le avvertì schiacciate al selciato, dove per quello che ne sapeva potevano anche aver fatto due buchi nell’asfalto rovente. Il poliziotto si asciugò le gocce che imperlavano la fronte- “Torna dietro la sbarra” disse con un tono basso, quasi rassegnato. Fatos Malaj non si mosse. Ora non c’era nulla che si muoveva nella scena. Fermi come in un quadro gli uomini aspettavano. Dopo qualche istante Fatos parlò, scandendo le parole. “Io conosco il nome dei tuoi figli” disse. Passò qualche secondo prima che riprendesse a parlare. “Sono dei bei bambini”. Dal tono sembrava che stesse conversando all’entrata di un supermercato con qualcuno che all’ultimo momento gli aveva sottratto il carrello, o in un bar con un vecchio compagno di giochi, al quale finalmente possiamo dimostrare quanto l’abbiamo odiato in passato, perché ormai tutto è finito, è passato tanto tempo e non c’è più spazio per nessun tipo di sentimento- “Mi stai minacciando?” finse di domandare il poliziotto e aveva un po’ di bava agli angoli della bocca. “Ora siamo passati alle minacce” urlò”.
Giuseppe Grattacaso, Parlavano di me, Grosseto, Effigi, 2015
a cura di Francesco Ricci