Giusy Frisina, Sul confine, Blu di Prussia

In una delle liriche di “Sul confine (Nel tempo-non tempo della pandemia)”, l’ultima silloge poetica di Giusy Frisina, compare il nome di Rilke: “l’infinita notte che Rilke cantava / con la lira di Orfeo”. Ed è proprio da un’osservazione fatta dal grande scrittore praghese che mi pare opportuno partire per accostarci alla raccolta in questione. Mi riferisco al passo della lettera a M. von Thurn und Taxis-Hobenlohe in cui Rilke parla della necessità di pronunciare la poesia ad alta voce (e meglio se a recitarla è il poeta stesso). Anche “Sul confine” richiede una “pronuncia ad alta voce”, scandita, che infranga e riscriva il silenzio. Solamente così facendo, è possibile rendersi conto che il protendersi di un verso per mezzo dell’enjambement nel verso successivo, che determina una più lunga e distesa misura metrica, è solamente apparente: “E gl’inquieti timori che attraversano / Le vie semideserte”, “A guardare per ore l’orizzonte steso / Sui flutti blu dei desideri!”, “Ma sarà finalmente lo squarcio / Di un mondo possibile ancora”. Più forte, infatti, del legame che il senso e la sintassi determinano è la potenza ritmica del singolo verso – e soltanto la “pronuncia ad alta voce” consente di coglierla – che inchioda l’unità metrica, arrestandone lo scorrere, il curvarsi, l’inarcarsi, tra la sillaba iniziale e la sillaba conclusiva, tra il primo e l’ultimo ictus. L’esito finale è rappresentato da una successione di versi energicamente scanditi, che rinvengono a livello fonico un’autonomia più forte di ogni possibile implicazione di senso e sintattica in quanto li precede e in quanto li segue.

Ma cosa può significare questo incessante contenimento della discorsività – alla lettera del “correre qua e là” – della poesia, che la fa somigliare tanto a una successione di singoli frammenti che hanno bruciato le funi e gli ormeggi che li tengono legati l’uno all’altro? A mio avviso, il venir meno di ogni idea di unità del reale e l’impossibilità di cogliere una direzione, e dunque un significato, nella Storia. Quest’ultima, infatti, per Giusy Frisina, come per Pier Paolo Pasolini, cammina, ma non va da nessuna parte. Credere nel progresso è ormai un atto di volontà o un inganno steso, come un velo, sulla disperazione: il completo venir meno del senso del sacro – del mistero del reale – rende la Terra un deserto di orrore e di insignificanza, un corpo stuprato, un giardino eroso e disseccato.

In quest’ottica, la frequente presenza nelle poesie di “Sul confine” di elementi naturali (la luna, il cielo, il mare, il vento, le montagne, la luce, la neve, le foreste) appare tanto più lancinante quanto più lucida è la consapevolezza che anch’essi si trovano sospinti sul confine tra l’essere e il non essere, tra la Creazione e l’Apocalisse. Quando si chiede perdono, infatti, come accade nella poesia “Che la morte non sia vana” (con quel trasporto, con quella intensità), significa che la salvezza per l’uomo è oramai soltanto una scommessa, un azzardo, un dono del Cielo. Non a caso “lo squarcio / Di un mondo possibile ancora” è possibile vederlo unicamente sull’”isola che non c’era”. La poesia che segue si intitola “Luna al perigeo (alla finestra)” e apre la raccolta.            

“La Luna è una finestra sulla notte

Ora che finestra davvero

È diventata la vita

Vuoto specchio del mondo

Occhio di sole e nuvola

Sorella un po’ matrigna che sorride

Nel silenzio abissale del tempo

Quasi ragazza impudica ed ignara

Che vola oltre i numeri del giorno

E vede dopo il pianto

Come di bimbi mai stanchi alle finestre

Almeno in questa notte

Una giostra di fate

E un nuovo cielo di vita”

 

Giusy Frisina, Sul confine, Blu di Prussia, Monte Castello di Vibio 2020

a cura di Francesco Ricci