Per la giornata della memoria pubblichiamo questo pezzo di Francesco Ricci, tratto da “La bella giovinezza. Sillabari per millenni als” (primamedia, Siena 2018).
Qual è la voce del Male? Qual è il suo colore? Grido o rantolo, bestemmia o frana, esplosione o tuono? Il nero di una notte senza stelle e senza luna o il rosso dell’Inferno, il giallo che acceca o il grigio che ruba i sorrisi e rende infinite le giornate? Quando, il 27 gennaio del 1945, le truppe sovietiche della sessantesima armata entrarono ad Auschwitz, Il Male venne loro incontro con la voce del silenzio e il colore della neve. Nonostante il rumore degli scarponi e dei cingolati, nonostante i fuochi accesi che coloravano l’aria e rischiaravano uomini e cose, mentre il crepitio delle armi squarciava angoli di cielo. Ovunque silenzio, ovunque il bianco della neve. Irreali al pari di ciò che si offrì alla vista dei soldati una volta varcati i cancelli del campo di concentramento. Inimmaginabili, come il pensiero che da qualche parte, nel cuore della civile Europa, potesse essere stata prima concepita, poi attuata la “Soluzione finale della questione ebraica”.
I miei millennials io li ho visti piangere, il 27 gennaio. Tutti gli anni. Anche se non ci sono lezioni, interrogazioni da sostenere, verifiche da riconsegnare. Le femmine e i maschi, in eguale misura. La ragazza con la gioia sempre dipinta sul volto e il ragazzo che si diverte a fare il duro e non si toglie mai gli occhiali da sole. In quel 27 gennaio, in cui in ogni scuola si commemorano le vittime della Shoah (“distruzione”, “tempesta”, “desolazione”), anche in loro io leggo la commozione. Seduti in cerchio, al chiuso di un’aula spaziosa, si ritrovano faccia a faccia col Male, il Male assoluto, quello che nessuna parola riesce compiutamente a dire, quello che nessun discorso può esaurientemente narrare. Cancellare un popolo dalla faccia della terra, ergersi a giudice di chi ha il diritto di abitare questo pianeta e chi non ce l’ha, deportare, a partire dal marzo del 1942, nei centri di sterminio sei milioni di ebrei: è proprio vero, “non c’è storia più difficile da raccontare” – come ha scritto Hannah Arendt in “L’immagine dell’Inferno” – “in tutta la storia dell’umanità”. E se provi a farlo, perché sai che il tuo dovere di insegnante è farlo, ti accorgi che i tuoi studenti piangono e sai bene che non esiste pianto più bello di questo loro pianto e ti rendi conto che è da questo pianto che occorre ripartire.
Perché è vero che gli adolescenti del terzo millennio sono meno empatici rispetto alle generazioni precedenti. Perché è vero che i modelli a cui guardano non appartengono più alla famiglia, alla scuola, al proprio ambiente sociale, bensì sono rinvenuti su YouTube o su MTV, dove a essere celebrato è uno stile di vita che ha nell’egoismo, nel narcisismo, nell’individualismo più esasperato i suoi capisaldi e che propone come unici scopi dell’esistenza il denaro e il successo. Perché è vero, da ultimo, che anche l’esercizio della lettura – con tutto ciò che comporta, richiede e dona – viene relegato ai margini delle loro attività quotidiane, con la conseguenza che testi fondamentali per la formazione della personalità e per la conservazione della memoria storica sono sentiti nominare, al massimo vengono sbirciati, quasi mai sono conosciuti integralmente e direttamente. Però nei nostri adolescenti l’ansia di giustizia, di reciproca comprensione, di libertà, di verità resta intatta e, se risvegliata, sa farsi rabbia e sdegno, sa trasformarsi in lacrime e commozione. Come accade sempre – come è accaduto anche quest’anno – il 27 gennaio, quando il Male assoluto è tornato a visitarli, richiamato in vita da “l’angelo dagli occhi tristi” di cui parla Elie Wiesel nel suo libro più bello, “La notte”: “I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti”.
Sei milioni di ebrei, la maggioranza dei quali proveniva dalla Polonia e dall’Urss, è una cifra che la mente dell’uomo fatica ad abbracciare, a concepire. È stato il più grande genocidio della storia, si dice comunemente, il più grande massacro, l’edificazione dell’inferno sulla terra. Tutto vero. Ma occorre compiere un passaggio ulteriore e pensare che quei “sei milioni di ebrei” erano in realtà sei milioni di esistenze singolari, di mondi unici, di biografie individuali, che legami di sangue e d’affetto univano a migliaia di altre persone. Si deve moltiplicare il racconto del bambino impiccato ad Auschwitz per sei milioni di volte. Si deve pensare a sei milioni di umiliazioni, privazioni estreme, esecuzioni. Solamente così ci si può avvicinare alla reale comprensione della Shoah. A quel punto tutto il resto cade nell’insignificanza più completa e quasi ci vergogniamo di noi stessi, di essere vivi, di poter godere dell’azzurro del cielo, di baciare i nostri cari, di sederci tutte le sere a una tavola pulita e apparecchiata. È per questo che Elie Wiesel, il quale ad Auschwitz aveva perso i genitori e una sorella, la fede in Dio, la fiducia nell’essere umano, per dieci anni non riuscì a parlare di quella sua esperienza tragica, tanto grande era l’angoscia che lo afferrava alla gola, tanto decisa la consapevolezza dell’incapacità della parola scritta di dar conto di quanto i suoi occhi avevano veduto.
La sofferenza (anche la sofferenza di non riuscire a raccontare, a ricordare, a descrivere) di chi è sopravvissuto a un campo di sterminio – Elie Wiesel, Primo Levi, Paul Celan – tocca il cuore dei millennials. È per questo che alcuni di loro piangono, il 27 gennaio di ogni anno, è per questo che alcuni di loro guardano con colpevole fastidio – con vergogna – alla propria esistenza comoda, ricca, serena.
di Francesco Ricci