Il violinista di Piazza San Marco

L’amore a Venezia sotto le dolci note di un violino.

Ricorderò sempre Venezia.

È la città che ha acceso i miei giorni di studente universitario, quando avevo ancora le tasche ricolme di sogni da realizzare.

Mentirei se dicessi che l’ho amata subito perché così non è stato: ero ancora troppo legato al mio sud, al suo calore e al bagliore del sole anche in pieno inverno.

Non è stato affatto un colpo di fulmine, rapido e fatale, ma una fiammella che lentamente ha preso ad ardere sempre di più, sino ad illuminare gli anfratti di me oscurati dalla mancanza di casa.

Lei ha saputo farsi amare.

Mi ha sedotto come un’abile ammaliatrice, ammiccando verso di me e scoprendo le sue curve, a poco a poco, lasciandomi contemporaneamente estasiato e desideroso di averne ancora.

E, alla fine, l’ho avuta in tutti i modi.

Venezia, la mia amata.

Ne ho esplorato l’anima, passeggiando sul suo corpo come dita leggere sulla seta, stringendo quel cuore che pareva sopito dalla foschia e che, invece, infuriava imperioso ed indomabile.
Tra tutte le cose che ho conosciuto di Venezia, più di tutte, continuerò a ricordare proprio quel cuore che ho scoperto tardi ma entro il quale, non so né quando né come, mi sono sentito finalmente accolto.

Sapete quando mi sono innamorato di Venezia? Quando ho percepito chiaramente il suo battito sotto i miei polpastrelli?

È accaduto un giorno, per caso, in piazza San Marco.

C’era un bel sole e il cielo era così azzurro da sembrare quasi un miraggio dopo intere giornate trascorse con una pesante cappa grigia a gravarmi sulla testa.

Lì, tra il via vai di passanti che non si accorgevano nemmeno di lui, c’era un violinista, seduto sul suo sgabello scomodo, il viso coperto dalla tesa del cappello.

Le sue note erano armoniche, appena sussurrate, come il respiro di un amante dritto nell’orecchio, ma avevano anche un retrogusto amaro.

Sapevano di riconciliazione e addio, al tempo stesso.

Ebbi la certezza che mi stessero parlando.

Raccontavano cose che io non potevo capire ma che mi indussero a fermare il mio frenetico andare.
Per un attimo, dimenticai dove fossi diretto, gli impegni, gli orari, la mancanza di casa e restai fermo, lì, al centro di piazza San Marco ad ascoltare la melodia di quel violinista.

Il mondo intorno a me continuava a girare, ma non me ne importava.

Nella musica di quel violinista squattrinato, quasi potevo sentire i racconti di ogni vita che aveva calcato quella stessa piazza, le voci di chi, prima di me, quella città l’aveva amata.

Se chiudevo gli occhi potevo vederli tutti: Dogi e dame e gondolieri.

Osservai l’uomo produrre note da quel meraviglioso strumento, socchiudendo le palpebre solo di tanto in tanto, come per paura di lasciarmi sfuggire qualcosa che allo sguardo non poteva essere scorto.

Produceva melodie di cristallo, quel violinista, fragili ma bellissime, e i piccioni si dondolavano attorno a lui, ammaliati, come fa il serpente al suono del flauto dell’incantatore.

Anche io ero completamente rapito tanto che, quando la musica cessò, mi parve come se si fosse improvvisamente spezzata una magia.

Sentii la pelle umida e, poggiando una mano sulla guancia, mi accorsi di aver pianto.

“Stupenda”

Sussurrai d’istinto, timoroso di rovinare quell’attimo appena vissuto, ancora fermo ma con il cuore che batteva impazzito, come se avessi per interi chilometri.

Il violinista alzò il capo verso di me, le mani strette saldamente attorno al suo strumento quasi fosse la sua ancora di salvezza.

Forse, lo era.

Per la prima volta, vidi il suo viso completamente e mi chiesi quante storie camminavano tra le sue rughe, quante cose i suoi occhi avessero da raccontare, quanta amarezza celasse quel sorriso che mi stava rivolgendo.

“Tutto ciò che parla di lei è stupendo”

Si limitò a rispondermi, abbassandosi a contare i pochi spicci sparsi nella custodia aperta del suo violino.

La sua voce era soffice eppure nascondeva il peso di pene che egoisticamente sperai di non conoscere mai. Sembrava venire da lontano, da qualche sua memoria probabilmente.
Mi chiesi di chi stesse parlando ma, prima che potessi domandarlo, lo osservai sistemare una vecchia foto in bianco e nero appiccicata con un consunto pezzo di nastro adesivo all’interno della custodia.

Non vidi bene i lineamenti della persona fotografata ma, solo guardando gli occhi del violinista e notando la cura con cui accarezzava quel pezzo di ricordo lontano, mi resi conto che non avevo bisogno di altro per comprendere che, chiunque fosse, aveva dovuto amarla davvero tanto.

“Dov’è adesso?”

Gli chiesi, rendendomi conto solo dopo di quanto la mia domanda fosse banale e, forse, impertinente.

Lui, però, si limitò a voltarsi verso di me e ad arricciare le labbra in una smorfia, questa volta in modo divertito, come se avessi detto la cosa più buffa del mondo.

Sfiorò le corde del violino poggiato sulle sue ginocchia, come se fosse un bambino da accudire e, ancora, sorrise mentre mi guardava negli occhi.

“Non la vedi? È ancora qui tra le corde di questo violino”

Una frase di cui, in quel momento, non compresi il profondo significato e che, anzi, mi lasciò vagare per un po’ nella convinzione che quell’uomo avesse smarrito il senno.

La ricordai anche negli anni a venire, però.

Non dissi nulla perché non potei: il violinista riprese a suonare il suo grande amore, senza lasciarmi il tempo di parlare.

Ritornai il giorno dopo in piazza San Marco perché volevo ancora incontrarlo e sentirlo suonare, ma non lo trovai.

Sembrava essere sparito come accade con i sogni al risveglio.

Eppure, sapevo che un sogno non era stato.

Mai più rividi il violinista di piazza San Marco, mai più lo sentii suonare. ma la sua melodia riverbera ancora nel mio cuore, insieme alle sue parole.

Ancora oggi che, vecchio e stanco come lo era lui quando lo vidi per l’unica volta, ho il solo desiderio di tornare a Venezia.

La mia amata.

Di riammirare le sue curve, scorgere il cuore grande nascosto in piazza San Marco e risentirmi di nuovo un eccitato ragazzo.
Vorrei poter rivedere il violinista che sessanta anni prima mi aveva incantato e dirgli che, ora, comprendo le sue parole.

La mia amata è tra le righe dei miei scritti, vivida come se si fosse alzata da tavola solo un attimo fa, come la sua era tra le corde del suo violino.

Angela La Rocca