Le poesie di Ima Pasquadibisceglia, riunite ora in “Essere”, edito da Aletti, rinvengono il loro tratto caratteristico nella coerenza. La raccolta, infatti, assemblando testi appartenenti grosso modo a un trentennio di attività (dal 1982 al 2015), consente di apprezzare la presenza di alcuni costanti che, nei temi come nello stile, divengono di fatto la cifra poetica dell’artista pugliese di nascita, ma residente dal 2010 a Siena. Fra tali costanti tre mi sembrano quelle salienti, quelle, cioè, che determinano nel lettore suddetta impressione di coerenza.
La prima è costituita dalla centralità dello sguardo, uno sguardo che corre curioso dalla realtà esterna al soggetto (i cicli naturali, il tempo della Storia) alla realtà più intima e privata, senza che, però, si produca alcun attrito tra il dentro e il fuori, dal momento che esiste tra le due dimensioni una profonda affinità e un’ininterrotta comunicazione. Da questo punto di vista, il riproporsi della novecentesca “situazione della finestra”, secondo la linea Saba-Fortini-Pavese, sarà da intendersi sia in senso letterale – il poeta che scruta il mondo che lo circonda – sia in senso metaforico – il poeta che ascolta e legge i più segreti moti dell’anima sua. La seconda costante è legata allo stile, sempre essenziale, misurato, pulito, alieno da ogni decorativismo.
Non a caso, gli aggettivi tendono a venire isolati nel corpo del verso (attiva appare la lezione del primo Ungaretti), così da conservare intatta ed esprimere la propria forza di significazione, evitando di venire riassorbiti dalla funzione meramente esornativa, la quale, naturalmente, potrebbe farsi maggiormente sentire laddove a venire impiegate fossero misure tradizionali e lunghe (come il novenario o l’endecasillabo).
Interessante, in quest’ottica, appare anche la propensione ad approntare dei cataloghi prevalentemente nominali (“Silenzio / rabbia / nostalgia // dolcezza / amore / malinconia”, “passato / presente / gioie / dolori / attimi di felicità / speranze / delusioni / errori / luci / ombre”, “Specchi d’acqua / bianchi riflessi / frantumati / piccole gocce / pesanti / su esili fili d’erba”), i quali vanno nella medesima direzione, che è, appunto, quella non già di sancire la disarticolazione del reale (per Ima Pasquadibisceglia l’essenza profonda dell’esistenza è il Cosmos, non il Caos), ma, piuttosto, di rivelare già a livello sensibile la presenza dell’universale nel particolare, del tutto nella parte.
Infine, la terza costante è legata al ritornare sia nelle poesie più antiche sia in quelle più recenti di due parole-chiave: “dolce” e “tempo”. Ad esempio, la prima apre “Natura” (“Dolce distesa di verde”), la seconda chiude “Felicità” (“fulminei attimi / ghermiti dal tempo”), vale a dire le due liriche che il lettore subito incontra sfogliando il libro. L’azione corrosiva del tempo è certamente ben presente in “Essere” e determina talora il tono minore (sottilmente malinconico) di alcune liriche, nelle quali a essere rievocate sono persone, stagioni della vita, illusioni, perse e mai più ritrovate.
Eppure, più forte di ogni sentimento del lutto e del vuoto è, nel mondo poetico di Ima Pasquadibisceglia, il senso del miracolo dell’esistenza e dell’esistente. E proprio dolcezza è la parola investita della responsabilità di rivelare l’incanto del ricominciare, del continuare a innamorarsi, del riappropriarsi della vita dopo avere fatto esperienza del morire, del non credere che la barbarie e la violenza debbano esaurire il destino dell’uomo, del sentirsi inondati dalla forza della creazione artistica dopo che l’ispirazione faticava a farsi sentire. La poesia che segue, intitolata “Mattino”, mi sembra che esemplifichi bene quanto osservato.
“Mi affaccio alla finestra
nel mattino ancora buio
respiro
aria bagnata
s’ode solo lo scrosciar della pioggia che
fitta
copre ogni cosa togliendo il respiro
e ogni cosa trasforma
in unica sostanza che
lentamente
la terra
assetata di vita e di morte
assorbe
solo
un piccolo micio
bagnato di pioggia
ancora assonnato
cerca riparo”
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