foto di ლევან ნიორაძე
Rileggo sempre con rimpianto e con dolore “La giornata di uno scrutatore” di Italo Calvino. Il rimpianto è legato alla scelta che lo scrittore, nato a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923, avrebbe fatto, di lì a poco – il romanzo, infatti, venne pubblicato nel 1963, il trasferimento a Parigi è dell’anno successivo –, di allentare il rapporto che sussiste tra l’opera narrativa e la realtà (dei fatti, dei sentimenti), approdando, da ultimo, a un’idea di letteratura autoreferenziale, di una letteratura al quadrato, come avviene con “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, che della vita non conserva, quando lo conserva, altro che un fioco barlume. Il dolore, invece, scaturisce dalla vicenda, in larga parte autobiografica, che viene raccontata, che ruota attorno all’esperienza di scrutatore, in un seggio del Cottolengo di Torino, di Amerigo Ormea, un militante comunista. E sono proprio le ore trascorse dentro le stanze dell’ospedale piemontese, che ospitava handicappati fisici, talora deformi, e malati di mente, a far scaturire degli interrogativi senza tempo sul dolore, sulla dignità della persona, sull’impegno politico, sulla forza misteriosa della natura, sui limiti della condizione umana, sull’amore. D’altra parte, noi siamo fondamentalmente creature che interrogano il mondo, il mondo delle cose, il mondo degli uomini, il mondo della Storia. Ci è connaturato, infatti, il desiderio di significato, vale a dire il bisogno di capire. Il canto lieve di un usignolo, la brevissima vita di un insetto o di un fiore, magari il “tacito fior” che sparge il suo profumo “sull’inospite piagge” in una quartina di “Ognissanti”, uno degli “Inni sacri” di Alessandro Manzoni, ma anche, e soprattutto, il dolore innocente, la morte di un bambino, gli abissi della follia, la malattia, la violenza gratuita, la Shoah: tutto ci sorprende, spesso ci scuote, sempre ci spinge a chiederci “perché?”. E quando la ragione non riesce più a fornire una risposta a queste domande, e quando la fede religiosa altro non ci sembra che un ricordo remoto o una vuota illusione, a quel punto il senso degli eventi resta sospeso, lo sgomento s’impadronisce di noi, che mai, come allora, avvertiamo infinita la nostra fragilità, la nostra impotenza. Il passo che segue descrive, filtrandolo attraverso lo sguardo del protagonista, l’incontro domenicale tra un padre anziano e suo figlio demente, uno degli ospiti del Cottolengo.
“La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per vedere masticare suo figlio. Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.
Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore, Torino, Einaudi, 1974
a cura di Francesco Ricci