“Dizionario delle notti” è, in primo luogo, l’opera matura di un autore maturo. Non è questione anagrafica, non è questione di calendario (Iuri Lombardi è nato a Firenze nel 1979). Piuttosto suddetta maturità rinvia – vi rinviene la sua evidenza – all’assoluto dominio che il poeta esibisce della tessitura retorica dei testi e del piano del linguaggio, dove la presenza di rimandi alla linea anti-novecentesca, in primis a Bertolucci e a Penna, si accompagna all’impiego di parole, sintagmi, espressioni di ascendenza ermetico-simbolista (“i lupi rovistano la via lattea”, “la luna lievita i sentieri persi nel nulla”, “vento infecondo d’acume”).
Non solo, ma a livello tematico la centralità del motivo dell’attesa e dell’assenza tradisce il segreto dialogo che Lombardi intrattiene col primo Luzi e, più in generale, con l’esperienza poetica che, nel periodo compreso tra gli anni Trenta e gli anni della seconda guerra mondiale, rinvenne in Firenze il proprio centro d’irradiazione. Vero è che tanto l’assenza quanto l’attesa sono però spogliate di ogni valenza religiosa: a livello ideologico a farsi sentire non sono né l’esistenzialismo né lo spiritualismo cattolico francese, bensì l’epicureismo.
Di conseguenza, l’assenza non rimanda a una presenza “altrove”, più piena e più autentica di quella che regala l’immersione nell’ingranaggio fenomenico delle cose; si tratta, invece, dell’assenza della / dalla persona amata, la sola che, al pari di ogni incontro, pare capace di schiudere un significato. Analogamente, anche l’attesa è destituita di ogni valore metafisico. Non è, cioè, l’attesa della parola di Dio o di uno stato di grazia, quale può essere l’ispirazione poetica; piuttosto, rimanda alla percezione – certa, indubitabile, inconfutabile – del divenire, sia della storia del soggetto sia della Storia tout court, come di un qualcosa che sia interpretabile come processo dotato di una direzione e non già come mera giustapposizione di frammenti irrelati. Ma ciò non avviene. Tale rivelazione non si dà.
Non a caso la sollecitazione dell’area semantica dell’alba-albeggiare-albeggio-albore, particolarmente evidente nella prima e nella terza delle quattro sezioni che compongono “Dizionario delle notti”, reca con sé, ed esprime, un senso di incompiutezza, perché quella fase del giorno, gravida di promesse e di speranze, resta monca, sottratta alla regolare circolarità delle ore. D’altronde, potrebbe mai un soggetto frammentato e disgregato fare esperienza di un tempo continuo? Di conseguenza, la salvezza, da intendersi come momentaneo arrestarsi della consapevolezza dell’inutilità e del vuoto dell’esistenza – ogni trascendenza è bandita –, deve essere rinvenuta nella notte, quando la città (può essere Firenze, può essere Roma) diviene più generosa di incontri, di corpi che si fondono, di piaceri, i quali alleggeriscono il peso del tempo riducendolo a puro presente, che riesce a far dimenticare all’io lirico la sofferenza e la pesantezza di tutte le albe nate e morte, felice metafora di tutte le nostre vite abortite, di tutte le nostre vite mancate. Quello che segue è il testo che, dopo una breve introduzione in versi, apre la raccolta.
L’abbiamo fatto mille volte contro
il muro, in piedi, felici ondeggiando:
è una questione di equilibrio il tenersi
in allerta tra i fusti degli alberi bui
-mi davo a te come un bimbo alla fiaba?
Dimmi adesso a cosa pensi? Luccica
una scia nell’incurvatura della notte;
forse è solo la cometa annunciatrice:
il redentore diserta il suo arrivo.
Iuri Lombardi, Dizionario delle notti, Arcipelago Itaca, Ancona 2020.
a cura di Francesco Ricci
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