Nella vita le cose che lasciamo indietro, prima o poi finiscono col raggiungerci. Alcune ci chiedono conto di quello che abbiamo fatto, altre ci aiutano a capire ciò che ci è stato fatto. “Nel tempo tutto resta”, il convincente romanzo d’esordio di Josuele Di Grazia, può e, a mio avviso, deve essere letto come l’illustrazione di questa verità. Verità tutt’altro che riposante, che pacificante, dal momento che se da un lato riafferma la natura latamente sociale di ogni esistenza (ciò che diciamo e compiamo comporta sempre una ricaduta sulle vite altrui, specie su quelle di chi è parte del nostro mondo), dall’altro, non fornisce alcuna garanzia che l’assunzione di responsabilità – per quanto abbiamo compiuto – e la comprensione – dei motivi del nostro soffrire – introducano necessariamente una trasformazione nella nostra vita, rindirizzandola, magari una volta per tutte, verso il bene o verso la felicità.
C’è stato un tempo in cui anche Marco, il giovane protagonista di “Nel tempo tutto resta”, conobbe la gioia e conobbe l’amore, nella sua forma più alta e pura, che è quella dell’amore materno. Fu allora che avvertì addosso, pur senza poterlo sapere o spiegare, che tale sentimento, così tenace, così esclusivo, era rivolto a lui nella sua concretezza, nella sua specificità: per quello che era, insomma, non per l’ideale che incarnava; a conferma, come ci ricorda Massimo Recalcati, che l’amore materno “è amore per il suo (=del figlio) nome proprio”. Ma quel tempo, tempo da sogno, durò lo spazio di pochi anni, passò rapido come uno sparo nel cielo settembrino, e Marco fece l’esperienza dell’esclusione e della solitudine. Perché a volte succede anche questo, che la vita desiderata, la vita attesa – l’attesa come grande figura della maternità –, si converte in un vuoto, in un fastidio, in un peso mortale. E a quel punto a legare la madre al figlio o il figlio alla madre non è l’amore, bensì l’odio. Ma come può accadere ciò? Come può accadere che una madre che ha amato suo figlio al punto da annullare la donna che è in lei – vive del figlio, vive per il figlio – eriga un muro tra se stessa e colui che ha generato? Quando ogni colore va smarrito e il solo suono che si ode sono i gaddiani “latrati del buio”, l’inatteso viene a bussare alla porta e ciò che pareva inimmaginabile diviene reale. È accaduto a Marco, è accaduto a Elisa (è questo il nome di sua madre), accadrà di nuovo. “Nel tempo tutto resta” non è, dunque, un libro facile, se con questo aggettivo intendiamo un libro che, una volta chiuso, lascia nel lettore un’impressione di serenità e di riconciliazione con quanto di opaco e di violento esiste al mondo.
Non è questo il messaggio che l’autore vuole far passare. Nella vita alla fine i conti non tornano quasi mai. È bene non farsi illusioni al riguardo. Non solo, ma è facile che il destino dei figli altro non sia che la riproposizione del destino dei genitori, la sua brutta o bella copia: infatti, a soffrire per l’assenza del padre e della madre, assenza reale, assenza simbolica, prima di Marco è stata proprio Elisa (che è cresciuta in diverse case-famiglia). Tuttavia, resa e rassegnazione sono parole, Josuele Di Grazia mostra di saperlo bene, che occorre pronunciare e fare nostre, eventualmente, soltanto al termine della nostra vita, quando ci sarà spazio per tanti ricordi e per nessun progetto o sogno. Prima di allora è tempo di lotta e di perdono, di guardare avanti con fiducia e di giudicare il passato (e coloro che appartengono a quel passato) solamente dopo avere provato a conoscerlo e a capirlo. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Era un lunedì notte quando Marco, dopo aver finito di lavorare, di diresse verso casa. Se avesse avuto una macchina, non avrebbe percepito il freddo di quella notte, e nemmeno quella pioggia che il vento gli sbatteva addosso, ma non potendo permettersela, dovette camminare, come d’altronde aveva sempre fatto. Il suo stipendio era molto ridotto in confronto a quello di tutti i suoi colleghi, il motivo se l’era sempre chiesto, senza però trovare mai una spiegazione. Una mattina tentò quindi di andare fuori dall’orario di lavoro nella sua azienda, per parlarne con il suo direttore, Luigi. Credeva che lo avrebbe trovato nel suo ufficio, ma avvicinandosi si accorse che invece era di fronte alla macchinetta del caffè. Ma chi diavolo me l’ha detto di venire…se poi mi licenzia, che faccio? non poteva fare a meno di pensare Marco, mentre teneva lo sguardo per terra e faceva dei passi così piccoli, che dava l’idea di non muoversi affatto. Una volta arrivato quasi vicino a lui, Luigi si voltò a guardarlo: era serio in volto e non mosse un muscolo, non sembrava nemmeno umano. Marco gli fece un piccolo sorriso e poi disse: ‘Buongiorno…’. Lui non rispose. Vedendo che da quando era di fronte a lui, Luigi non diceva una parola, Marco andò dritto al punto: ‘Volevo sapere se fosse possibile avere un piccolo aumento, dato che è molto tempo che lavoro qui e mi sono sempre impegnato…’”
Josuele Di Grazia, Nel tempo tutto resta, New-Book edizioni, Rovereto 2021
a cura di Francesco Ricci
foto di Francesco Laezza