Il film di Pedro Almodovar è stato presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, ma non ha ricevuto premi.
In concorso al Festival di Cannes 2016, totalmente ignorato nei Palmares (!) “Julieta” è l’ultimo e ventesimo film di Pedro Almodovar, tratto da “Silencio”, uno dei racconti di Alice Munro e dal quale è adattata anche la sceneggiatura. Almodovar non ci delude proprio mai, l’inizio infatti di questo film è uno dei migliori incipit visti di recente: un drappo rosso dal vestito della protagonista che invade il quadro, un rosso veneziano, come il codice cromatico del dramma dell’amore e della passione che questo genera. Rosso anche come il drappo del palcoscenico dove comincia il melodramma quasi tutto al femminile, classica architettura di donne del regista spagnolo. Un lavoro minuzioso di flashback attraverso cui Almodovar ci presenta Julieta sia con il volto espressivo di Adriana Ugarte– la protagonista da giovane – sia di Emma Suarez, con un volto altrettanto bello, Julieta dai 40 anni in su. Ma perché Almodovar ha voluto due attrici così diverse per lo stesso personaggio, non bastavano i bravissimi professionisti del trucco cinematografico? Ed eccolo, spiazzante, come sempre: “ è quasi impossibile per una giovane venticinquenne avere lo stesso aspetto di una cinquantenne. Non si tratta di rughe, è qualcosa di più profondo. Il trascorrere del tempo fuori e dentro”
Il film è molto asciutto nella trama e Almodovar dipana l’intreccio con un ordine più schematico: Julieta, insegnante ultracinquantenne, sta per partire per il Portogallo con Lorenzo, il suo attuale compagno, quando incontra per strada Beatriz, una vecchia amica di sua figlia Antía, della quale non ha notizie da circa 12 anni. Beatriz che non è al corrente di questo strano allontanamento, le parla di Antìa dicendole che nel frattempo è diventata madre e si è trasferita in Italia. Avere dopo tanto tempo notizie della figlia perduta fa ripiombare Julieta in una depressione che aveva appena iniziato a superare. Annulla la partenza, abbandona Lorenzo e inizia a scrivere su un quaderno-diario tutto ciò che non era mai riuscita a raccontare alla figlia scomparsa.
Attraverso i suoi ricordi, che man mano prendono forma con gli occhi del regista, Julieta descrive ad Antia l’incontro casuale su di un treno con suo padre, il pescatore Xoan (Daniel Grao), del quale si innamora, e ricostruisce con logicità tutti gli eventi legati alla nascita e alla crescita della loro figlia. Ma la tragica morte di Xoan, segnerà drammaticamente la sua vita.
Quindi, un vero e proprio psicodramma familiare dove il dolore, il senso di tragedia e, soprattutto, l’impotenza pervadono e contagiano lo spettatore. Questa volta, però, Almodovar non ci regala ironia, libertà di spirito e di pensiero, tipici di quasi tutte le sue opere. Questa volta Almodovar è decisamente crudo, diretto, molto freddo e sembra non dare speranza allo spettatore. Ha abbandonato il melodramma quasi grottesco (e che serviva a farci sorridere…); ha creato un’opera addirittura sommessa, leggera, delicata nella narrazione. Il fragile equilibrio ritrovato di questa donna di 50 anni viene nuovamente messo in discussione con le notizie di sua figlia scomparsa: sapere che ha 3 figli, vive a Como, le fa riemergere un senso di colpa che la perseguita da almeno 30 anni. Almodovar costruisce tutto sui flashback del diario di Julieta rivolto ad Antia. Prima il rapporto con il padre-pescatore Xoan, dell’amore travolgente che li ha legati in una casa costruita a pochi passi da un mare insidioso, dispensatore di vita e di morte. E poi la tragedia (che nella narrazione Almodovar riesce a rendere incombente): la tempesta di quel mare con la morte di Xoan. Ecco il Destino, il Fato e la Colpa di Julieta (il litigio per gelosia con Xoan prima che entrasse in mare…) che saldandosi come onde del mare, spezzano i legami anche più forti (madre-figli) e ci ricordano violentemente e impietosamente quanto siamo precari e quanto siamo noi la piccola preda di queste correnti….
Film molto ricco del linguaggio cinematografico classico del regista spagnolo: i suoi colori, che sono sempre un bel piacere per i nostri occhi. Inquadrature con costanti stacchi cromatici, principalmente il rosso e il bianco, ma anche il mare plumbeo e la neve tagliata da un cervo. Sfumature del dolore, della colpa, del Destino: bellissimi colori di cose che contrastano con un grigio sbiadito dei nostri stati d’animo.
Ci è parsa una narrazione ed una rappresentazione molto fine, anche se l’atmosfera del film è resa inquietante, misteriosa, sospesa. E non c’è proprio nulla di felliniano in quest’ ultimo lavoro di Almodovar! E’ un film soprattutto sensibile che affronta tematiche comuni a tutti: il profondo senso di colpa per le proprie azioni (di cui non si capisce esattamente il perché…), il fatalismo degli eventi, l’amore incondizionato per il proprio compagno e soprattutto per i propri figli, le nostre giustificabili debolezze e i dubbi interiori, la propensione al perdono ed al riavvicinamento affettivo.
Ci sembra anche che Almodovar abbia voluto fare proprio un antico tòpos: quelle colpe dei padri che ricadono sui figli. Peccato, sembra dirci, che non ce ne accorgiamo se non quando è ormai troppo tardi.
Film molto duro, schematico, che però ci ha tenute incollate allo schermo, non solo perché amiamo Almodovar e da lui ci sentiamo “spiegate”, ma anche perché la bellezza di questa storia sta nella sua fragilità che la rende umana e piena di buchi.
Ci ha offerto, alla fine, una leggera venatura di speranza (la lettera finale di Antìa alla madre con il mittente) e forse noi donne siamo sempre pronte a specchiarci nella persona amata, abbassando le difese e mostrandoci per quello che siamo, ma solo dopo avere avuto il coraggio di guardarci profondamente dentro.
Giada Infante