Dopo “Riunione di famiglia” (2007) e “Il sospetto” (2012) è giunto nelle sale Kollektivet (La Comune) l’ultimo lavoro, già presentato al Festival di Berlino, del regista danese Thomas Vinterberg, che molti ricorderanno per “Festen” (1998), il lavoro realizzato secondo le regole del manifesto estetico Dogma 95. Creato da Lars Von Trier a Copenhagen, i principi filmici del Dogma erano: niente sceneggiatura, niente colonna sonora, solo camera a mano, poi successivamente violati dai registi stessi del movimento.
“La Comune” è ambientato in Danimarca negli anni 70 ed ha come tema portante la famiglia, tema già caro al regista, che con quest’opera e con l’aiuto sostanziale del co-sceneggiatore Tobias Lindholm, riesce ad estenderne il concetto in maniera intelligente e aperta. Il film è anche la naturale prosecuzione della omonima piéce teatrale dove i personaggi principali sono Erik (Ulrich Thomsen), un architetto che insegna all’università, la moglie Anna (Trine Dyrholm), popolare volto del tg serale e Freja ( Martha Sofie Wallstrøm Hansen), figlia adolescente che si sta affacciando al mondo. Per Erik l’enorme e dispendiosa casa di famiglia appena ereditata è un qualcosa di cui addirittura liberarsi, perché “vivere insieme significa potersi percepire, sentire, ascoltare” e quella casa è troppo grande per loro tre soli. La moglie Anna, al contrario, crede che “un ambiente ristretto rende di vedute ristrette” e quell’edificio potrebbe rappresentare proprio l’occasione e il sogno di una vita: conoscere altre persone e creare una autentica Comune. E giungono così ad essere in dieci: otto adulti, un’adolescente e un bambino, non solo amici ma anche persone mai viste prima, che si sottopongono da subito al voto dei comunardi secondo modalità ben note a tutti gli studenti fuori sede! La ricostruzione da parte di Vinterberg è praticamente perfetta, quasi maniacale:vestiti, mobili, addirittura le obliteratrici sull’autobus e non mancano le vecchie tv in bianco e nero, incantevoli, insieme ai brani d’epoca. Il regista (anch’egli con un’infanzia trascorsa in un una Comune, da cui l’aspetto autobiografico del film) dirige e riprende molto bene con la camera gli attori soprattutto nelle scene di confronti e dialoghi fortemente ricercati dai protagonisti intorno al grande tavolo da pranzo. Particolare poi la scena in cui i componenti della Comune, nudi e alticci, tuffandosi in mare ci mostrano un qualcosa di genuinamente hippy. Ma non è un hippy nostalgico: con queste scene, Vinterberg vuole solo descrivere quelle situazioni tramite cui, forse, la vita comune riusciva effettivamente a diluire i dolori e amplificare le gioie di ciascuno.
Ma se all’inizio il regista ci invita a seguire le dinamiche, anche divertenti, di questa bizzarra famiglia allargata, con il procedere il film stringe lo sguardo sul triangolo Erik, Anna ed Emma, giovane studentessa, ottime curve e ottimo cervello, amante del protagonista. Anna fa la cosa peggiore, lasciandosi influenzare dal clima “libertario” del periodo: propone che la ragazza venga ad abitare nella grande casa e il suo nuovo ingresso renderà ulteriormente pesante e faticosa la convivenza per tutti. In particolare per la figlia adolescente Freya che cercherà di rimanere in piedi mentre le certezze sulla sua “originaria” famiglia si stanno sgretolando intorno a lei.
Vinterberg riesce a mostrarci come la famiglia nucleare possa risultare una sofferenza, ed è proprio in questa “zona” della Comune che infatti sorgono i maggiori problemi. Per quanto le coppie degli anni ’60 e ’70 cercassero di essere di mentalità aperta, la gelosia e la possessività fanno parte della natura umana, specie se si “prova qualcosa di nuovo” dopo dieci anni di convivenza e con una figlia adolescente a completare il tutto. Ed è proprio Freja, il personaggio più interessante del film, a soffrirne di più.
Il film, alla fine, risulta ben lontano dall’idea dogmatica che si ha solitamente sulle Comuni degli anni Sessanta e Settanta; ha tutti i presupposti per risultare una storia pesante, ma finisce per non esserlo mai. Racconta fatti dolorosi, ma lo fa sempre con un senso di pura normalità, senza abbracciare lo sconforto del personaggio che soffre. Ci mostra di fatto uno dei tanti modelli alternativi alla famiglia del “family day”, ma potenzialmente disfunzionale come qualsiasi nucleo di persone. E’ un film con una visione della vita comune in perenne equilibrio tra dolore e leggerezza, ma con un chiaro intento antiretorico, antisantifico nel tono da parte del regista.
Alla fine “Ognuno sceglie la propria famiglia”, come recita la locandina del film, ed è da questo presupposto che nasce il sogno collettivo del “condividere stando insieme”. Ma se vivere insieme vuol dire soprattutto “potersi percepire, vedere, sentire, ascoltare”, che invoca Erik all’inizio del film, cosa fare quando tutto ciò viene meno?
Giada Infante
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