Per presentare l’opera prima del giovane autore fiorentino Leonardo Salvador, preferisco partire dalle illustrazioni che spezzano la continuità dei dieci racconti che compongono “Il signor Chissà”. Si tratta di disegni in bianco e nero, con i volti delle persone privi di tratti riconoscibili – perciò generici e indistinti –, sovente in ombra, con linee rette e linee curve accuratamente tracciate che finiscono col disciplinare lo spazio al cui interno la figura umana si viene a collocare. Naturalmente il lettore, che ha già preso confidenza coi racconti, non fatica a riconoscere in tali figure (umane) i personaggi che li popolano, così come non fatica a interpretare la singola immagine nel suo complesso come la raffigurazione di uno o più momenti decisivi della storia a cui essa rimanda. Ora, la scrittura a me pare svolgere per l’autore del “Signor Chissà” la stessa funzione di quelle linee, vale a dire, racchiudere, ordinare, costringere, ma senza nessuna violenza, piuttosto assecondandola, una materia che, per la sua indeterminatezza e irriconoscibilità, non si lascia afferrare. E tale materia non si lascia afferrare perché, a ben vedere, non è la realtà quotidiana e non è neppure la realtà straordinaria, quella destinata, per intendersi, a riempire di sé i quotidiani per poi, un giorno, finire dentro le pagine di un libro di storia.
Tale materia, detto in maniera molto semplice, non è la realtà, non ha niente a che fare con la realtà nota e familiare, se non in piccola misura. E la scrittura, che la contiene e che prova a raccontarla, non è, riprendendo la nota distinzione formulata da Ernesto Sábato, scrittura “diurna”, ma “notturna”, la sola in grado di esprimere il caos interiore, le ossessioni più inconfessabili, i demoni che abitano nel fondo del cuore dell’autore. I dieci racconti del “Signor Chissà”, infatti, sono stati scritti nel punto in cui la veglia incontro il sonno, la veglia incontro il sogno. E se ciò, da un lato, determina l’atmosfera sospesa, a tratti onirica, che avvolge le storie nel loro complesso, dall’altro, ha una ricaduta, oltre che sul piano del linguaggio impiegato, sull’impianto di alcuni dei racconti, quali, ad esempio, “148” e “All’ombra di uno sguardo”. Un dialogo con un Condor al chiaro di luna, un enigmatico viaggio in treno, una comunità nella quale una sola persona è in grado di ricordare tutto, mentre il resto della popolazione è composta di smemorati, una mostra di quadri a Parigi, un uomo appeso al ramo di un albero che parla con una ragazza seduta su un sasso.
Sono fatti accaduti? Sono fatti che possono accadere? Ma quando, ma dove si sono verificati o potrebbero accadere? Domande legittime in una raccolta di racconti che già a partire dal titolo mostra la sua natura eminentemente interrogativa. L’avverbio “chissà”, infatti, è un cristallizzarsi dell’interrogativa diretta “Chi sa?”, che esprime dubbio, incertezza, talora vaga speranza. E se l’autore interroga il mondo alla ricerca di una direzione, di un significato, di uno scopo dentro il magmatico e opaco succedersi degli avvenimenti che noi chiamiamo realtà, il lettore interroga le storie, leggendole e rileggendole, per verificare se l’interpretazione che lui fornisce delle stesse sia fondata, rinvenga, cioè, conferme nel testo. Alla fine, è una questione di soggettività, di punti di vista, certamente relativi e opinabili, ma che lasciano trapelare comunque un atteggiamento non di resa di fronte al reale: a latitare può essere il senso, non l’assidua domanda di senso. Il passo che segue costituisce l’inizio del primo dei dieci racconti.
“Ecco la storia del giorno che mi svegliai, o meglio, che dal lungo sonno fui svegliato. Non fui da solo a farlo, ebbi bisogno di un amico. Era un amico un po’ particolare, e la notte che sto per raccontarvi è quella in cui lo incontrai. Stavo passeggiando sulla costa di un mare calmo, da qualche parte nell’est, quando vidi uno strano albero scarno e solitario che protendeva i rami verso il buio marino. Appollaiato su uno di quei rami, con la testa volta alla luna, c’era un grande uccellaccio immobile, ed io, spinto dalla curiosità, non potei fare a meno di avvicinarmi a lui. “Tranquillo amico mio, vieni…. siediti qua davanti, cosicché la cara luna possa illuminarci entrambi”. Il Condor parlava, e mentre avanzavo a piccoli passi, aprendo l’ala mi aveva indicato un grande masso bianco sotto di lui. “Vieni, avvicinati – ridacchiava gracchiando – mica ti mangio… almeno fin quando non sarai vivo”. La sua risata stridula si esauriva nel mare, senza lasciare eco, mentre io, con le gambe tremanti, mi accomodavo sulla roccia. Il Condor aveva le piume nere che si confondevano col buio, e il lungo collo che sbucava tra gli arbusti. I suoi occhi gialli guardavano dritti nei miei. E prima che potessi dire qualcosa, cominciò a raccontare la sua storia, rauco e tagliente come un coltello sul ferro. “Sai, devo tanto alla mia cara Luna, e adesso ti dirò perché. Una sera, mentre il mare cascava a grandi gocce dal cielo, me ne stavo con gli artigli piantati su una roccia sporgente dentro a una piccola grotta sul versante della montagna. Non potevo volare nell’acqua, e stremato, dopo una giornata di caccia sfortunata, mi addormentai”.
Leonardo Salvador, Il signor Chissà, piattaforma Amazon kindle direct publishing, 2023
a cura di Francesco Ricci