Lo spezzato oggetto è un libro di una bellezza tragica, di una bellezza impietosa. Non consola, non illude. Non può farlo, non intende farlo. Non lascia credere che l’esistenza dell’uomo sia altra cosa – qualcosa di diverso, qualcosa di migliore – da quella che si offre allo sguardo e all’esperienza. Essa è solamente transito e perdita.
Transito dal Nulla dell’origine al Nulla della fine, che determina (e spiega) la fragilità irrimediabile di tutto ciò che vive sospeso tra questa doppia negazione. Perdita di stagioni, sogni, incontri, possibilità, trasalimenti, che riduce ogni consuntivo esistenziale a un mesto threnos intonato su ciò che non è stato – poteva accadere, ma non è accaduto –, come succede con certi amori, con certe promesse.
È vero, c’è stato un tempo, il poeta lo sa, lo sa bene, nel quale la felicità è sembrata qualcosa di più di un vano nome. Anzi, è parsa così vicina, così a portata di mano da lasciarsi quasi sfiorare. Ma poi è sempre intervenuta, tranne che nell’infanzia, l’età dell’inconsapevolezza, una distanza a impedire quell’incontro, quel contatto.
E così ciò che rimane, ciò che è rimasto, sono fatica e ansia, sofferenza e insensatezza, disperazione e solitudine, mancanza e disincanto. La felicità è un inganno, il bene non esiste e l’unica salvezza per l’uomo è la rinuncia ad ogni coinvolgimento emotivo, attraverso una sorta di atonia sentimentale, che lo relega, però, al rango di cosa, di oggetto, di minerale (“Divenni imperturbabile. / Fui indifferente a tutto”, “Divenni come la pietra all’angolo della via”).
Ne Lo spezzato oggetto neppure la Natura, neppure gli affetti si offrono come possibile consolazione. I “tramonti estivi”, “le lucciole nei prati”, “i grilli che saltano tra l’erba”, “la neve che ricopre l’universo”, “il biancore del plenilunio” possiedono, infatti, nella poesia di Valentini la consistenza di un raggio di sole in un mattino invernale, che rischiara, ma non riscalda: la verità, la drammatica e monotona verità, piuttosto, è fatta di “poggi di creta e cenere, / dilavati e tristi”, “alberi morti / nel nero tramonto”, “alberi ingialliti”, “profondi calanchi”, “cielo nero”, “cielo incenerito”.
L’amore, d’altra parte, è rappresentato come un’esperienza che non modifica la condizione di sostanziale solitudine e incomunicabilità che contraddistingue le persone (Mi sposai: / mia moglie ed io / eravamo due solitudini / che si erano incontrate”), mentre ogni contatto col resto degli uomini, creduto e vissuto inizialmente come reale apertura, come un fuoriuscire dal proprio io, si rivela essere, quasi fin da subito, chiusura e distacco: “Ognuno nasce solo, / vive solo, / muore solo… /ogni tanto s’incrocia con altri, / si avvinghia e si lascia…”. Perfino le parole che un padre rivolge al proprio figlio – monologo, non dialogo – non riescono a intaccare la spessa parete che divide gli individui, al punto che il “noi” è ricondotto subito entro l’alveo dell’ “io”: “ripenserai, figlio mio, a tante cose / della nostra esistenza insieme, / rivedrai il mio volto, la mia espressione, / infiniti episodi…”. Di conseguenza, unicamente nella morte può rinvenirsi la salvezza, dal momento che essa, in quanto via di accesso definitivo al Nulla, pone termine al disordine, al caos, all’irrazionalità, alla pesantezza che connotano il nostro essere nel mondo.
Sotto questo aspetto, il morire, ogni morire, è una forma di armonia e di leggerezza.
Lo spezzato oggetto è un fiore nato e cresciuto sul terreno del Novecento. Fiore tardivo, dunque, fiore fuori stagione, perciò. Evidente, infatti, appare il debito contratto (per quanto concerne il lessico, il tono e il ritmo) con la poesia del primo Montale, con lo Sbarbaro di Pianissimo e, più in generale, con l’espressionismo di area vociana, Campana e Rebora in primis (a livello di pensiero, invece, centrale risulta la linea Schopenhauer-Leopardi, con significative tangenze con l’esistenzialismo francese e col contingentismo di Èmile Boutroux).
L’equilibrio tra parlato e lingua letteraria tende costantemente a spezzarsi a favore del primo termine, l’assonanza e la consonanza erodono spazio alla rima (“suonava / strada”, “stanza / burrasca”, “bocca / spacca”, “insonne / chiarore”, “invade / rimane”), mentre misure di verso lunghe, eccedenti anche l’endecasillabo, si alternano a misure brevi e brevissime, riproducendo così sul piano metrico il dissonante e imprevedibile disordine della vita. Ma sono proprio i fiori tardivi, i fiori fuori stagione, quelli che non smettono mai d’innamorarci, come fa l’Aster elicoide, che col suo rosa intenso rende meno uniformemente grigi i pomeriggi di inizio novembre, quando il cielo pesa su ciascuno di noi come una condanna e una maledizione, la maledizione d’esistere: “La mia agonia / incominciò da quando nacqui… / Un incubo per me fu la vita”-.
I versi che seguono, sono tratti dalla poesia che apre il libro: “Io fui uno spezzato oggetto”
Io fui uno spezzato oggetto,
un coagulo confuso di apparenze,
un frammento
in un incoerente universo
proiettato,
in una sconnessa mente.
Io contenei infinite, disgiunte cose.
Apparvi.
Fui il singhiozzante fiume degli eventi,
l’irripetibile lampo della vita,
un sogno d’orrore.
Esistetti.
Fui punti, linee, sfere,cubi, colori:
nulla di me rimase,
nulla di un nulla…
Fui un fiume.
a cura di Francesco Ricci