“La strada del Poggio” di Andrea Siveri è un romanzo storico, che rinviene il suo modello nei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Al pari della Lombardia sotto la dominazione spagnola, infatti, anche la Toscana di metà Ottocento è descritta come una terra contrassegnata dalla miseria, dalla violenza, dalla mancanza di tutele giuridiche per i semplici cittadini di fronte ai potenti, dall’inefficienza e dalla corruzione della giustizia.
Di chiara derivazione manzoniana appaiono anche alcuni personaggi di rilievo. Ad esempio, il Catoni e il Del Pasqui, due “energumeni senza scrupoli dai modi alquanto spicci”, rimandano alla figura “de’ bravi”, il padrone che servono, il cavaliere Pietro Leopoldo Buoninsegna, ricorda non poco don Rodrigo, così come il curato, don Laurenti, presenta molti punti di contatto con don Abbondio, sia per il modo con cui ricopre e interpreta il ministero sacerdotale (“non si poteva dire che la sua vocazione fosse profonda”) sia per l’insopprimibile desiderio di tranquillità che finisce col condizionare le sue scelte (“non aveva mai aspirato a vita migliore che divenire curato di una tranquilla comunità di campagna”).
La cura nel descrivere i gesti di queste e di altre figure (penso al tenente Binelli e al maresciallo Innerhoffer) e nel rappresentare gli ambienti è costante e, come avviene in Manzoni, contribuisce non poco al realismo della narrazione. Concorre poi a rafforzare il carattere storico del romanzo l’impiego di documenti, i quali, anche a livello di stile, rimandano all’epoca in cui è ambientata la vicenda; da questo punto di vista, i verbali di interrogatorio, le lettere, la sentenza emessa dal tribunale di Siena in data 22 novembre 1852 svolgono nella “Strada del Poggio” la stessa funzione che nei “Promessi sposi” viene assolta dalle grida. Non mancano, infine, le digressioni, come quella sulla politica di Leopoldo II in Toscana, che apre il capitolo intitolato “Il consorzio”.
Ora, se Siveri esibisce il romanzo-modello in maniera talmente consapevole da accogliere nel testo perfino parole che ogni lettore spontaneamente associa al capolavoro di Manzoni (sgherri, signorotto, capriccio, schioppo, trombone, coltellaccio), non lo fa né per rendergli omaggio né per esprimere un’analoga passione per la ricostruzione storica scrupolosa e documentata. Piuttosto, fa propria l’idea – che appartiene al Manzoni tragediografo non meno che Manzoni romanziere – che niente più del passato permette di parlare del presente, specie in un Paese, quale è l’Italia, che non ha conosciuto autentiche rivoluzioni. E così accade che la sentenza di condanna dei responsabili del delitto di un luogaiolo, Pasquale Menchetti (“Defunto stanotte, occiso da un colpo d’arma da fuoco a pallettoni, da distanza che pare risulti amaramente attuale, sia per ciò che essa stabilisce sia per ciò che essa volutamente trascura di prendere in considerazione. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Tre sono i gatti che appartengono a tre sorelle del terzo figlio di tre fratelli…’ erano giorni che il tenente capoposto della Gendarmeria Granducale Mario Binelli aveva in testa questo motivetto infantile. All’inizio lo aveva preso come un vezzo, un riaffiorare di ricordi antichi, della fanciullezza, poi era diventato un mantra, una fisa…adesso che da giorni lo canticchiava in continuazione, tanto da temere di essersi ammalato di non si sa quale malattia mentale.Si affacciò alla finestra cercando un po’ di frescura da quell’afa opprimente che attanagliava da giorni tutta la campagna: macché, niente, il caldo era insopportabile.Dalla stanza a lui assegnata si vedevano campi a perdita d’occhio, qualche sparuta casa, lontani paesi e città annebbiati dai fumi di quell’agosto bollito. Cercò di non pensare ai motivi che lo avevano portato a essere lì, quindi optò canticchiare la canzoncina, per non cadere nello sconforto. Da giorni ormai non succedeva niente, che so, nemmeno una rissa, una diatriba, un qualcosa che richiedesse l’intervento di quel male assortito gruppetto di militari, per lo più mandati in punizione in quel posto lontano da tutto. E lui non faceva eccezione, lui austriaco di nascita e ufficiale di uno degli eserciti più forti al mondo”
La strada del poggio Andrea Siveri
a cura di Francesco Ricci