“Il noce dell’Alderga” di Luigi Bicchi è una pagina di storia del Novecento italiano. Poco importa che i riferimenti a fatti e protagonisti del “secolo breve” siano sporadici e che le coordinate temporali siano sovente labili (1955, 1982, 1999). E nemmeno conta più di tanto che questo “romanzo per racconti”, pur rimandando in molti casi a eventi realmente accaduti (e divenuti ricordi familiari), sia fondamentalmente un’opera d’invenzione. “Il noce dell’Alderga” è e rimane soprattutto un libro di quello che siamo stati e che avremmo potuto essere. Perché ci sono certi appuntamenti con la Storia che sono stati mancati (a partire da quello col Risorgimento e con l’immediato secondo dopoguerra) e perché ci sono state delle svolte che non sono state colte per tempo o che non sono state governate e dirette bene (il boom economico, la congiuntura economica favorevole dei primi anni Ottanta, la globalizzazione). Forse è proprio per questo che alla fine i sentimenti dominanti, una volta conclusa la lettura del “Noce dell’Alderga”, risultano essere la rabbia e la compassione: la rabbia, perché noi non siamo affatto il paese che potevamo essere, la compassione, perché suddetto scarto ha originato una profonda sofferenza, spesso associata alla miseria, in molti uomini e donne d’Italia. Se non si tiene conto di questo retroterra storico, politico, sociale, resta preclusa la piena comprensione del significato complessivo che gli spaccati di vita, che l’autore illumina e riunisce in questo bellissimo libro, possiedono. Le esistenze che Luigi Bicchi racconta, infatti, sono tutte, qualcuna di più, qualcuna di meno, esistenze deragliate.
Ma il deragliamento – lo scrittore senese lo sa bene – poche volte è imputabile al destino; quasi sempre, invece, è causato o da scelte personali sbagliate o dalle decisioni degli altri, in primo luogo da quelle dei governanti. D’altra parte, ogni popolo ha il suo carattere, ha la sua natura. La natura degli italiani è quella che hanno colto, con acume insuperabile e con uno sguardo quasi “straniero”, Giacomo Leopardi nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani” e Pier Paolo Pasolini negli “Scritti corsari”: l’egoismo, l’opportunismo, il cinismo, una visione non di lungo termine, l’indifferenza. Tuttavia, Luigi Bicchi non vuole indossare né i panni né del filosofo morale né dell’etnologo. Ciò che gli preme è dare forma e consistenza letteraria a delle vicende umane che ciascuno sente un po’ come proprie, perché le ha vissute, perché gli sono state raccontate. Sono vicende che rinvengono ora nella campagna (più spesso) ora nella città (meno spesso) il loro ambiente, e che ci mostrano che alla fine a salvarsi sono sempre e soltanto gli affetti autentici (come quello tra Paride e Amaura) e che difficilmente la vita mantiene le sue promesse (si pensi, a titolo d’esempio, a “I trasparenti”). Il libro è impreziosito dall’illuminante introduzione di Daniela Dal Lago. Il passo che segue è tratto dal racconto che dà il nome all’intera raccolta.
“Come ogni sera Paride accostò l’uscio di casa, dette uno sguardo allo stabbiolo delle galline controllando che fossero rientrate tutte, quindi si affacciò anche nel casotto dove teneva le gabbie dei conigli. Il vecchio Mauro, un asino che aveva preso con sé per compagnia, era già nella stalla insieme alla Morina, la mucca del latte quotidiano; guardò che fossero a posto, li salutò come si fa con dei vecchi amici e si avviò per andare verso quel suo appuntamento. Era già primavera, così come allora. Allora già… altri tempi non c’era ancora la vecchiaia, erano giovani, soprattutto erano; adesso, invece, doveva contentarsi di dividere la propria solitudine con i suoi animali. Altri tempi quelli con Amaura. Quando si erano sposati, al loro matrimonio aveva partecipato tutto il paese. Se si può chiamare paese un agglomerato di tre o quattro case addossate alla chiesa, la bottega dell’appalto, l’abitazione del dottore e quella del fattore, il resto di quella comunità viveva dispersa nei casali dei vari poderi. Il paese, quello vero, stava a qualche chilometro da lì, rinchiuso nella sua cinta di mura turrite. Non ci andavamo quasi mai se non per qualche documento o per ragioni che dovevano essere serie. In questo caso il commento al viaggio era grave e solenne: ‘Pensa, sono dovuti andare fino in paese!’. La messa della domenica, i balli durante le feste, un battesimo oppure un funerale rimanevano le uniche possibilità nelle quali potersi scambiare notizie, chiacchiere e qualche bevuta”
Luigi Becchi, Il noce dell’Alderga, nuova immagine, Siena 2022
a cura di Francesco Ricci
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