Quando in letteratura ci si confronta con la figura dell’inetto, viene naturale pensare alla produzione di inizio Novecento. Tra i numerosi esempi, è possibile citare “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, la trilogia sveviana, “Rubè” di Giuseppe Antonio Borgese, “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, “Gli indifferenti” di Alberto Moravia, “Il processo” di Franz Kafka, “L’uomo senza qualità” di Robert Musil.
In realtà, una tale tipologia di personaggio è ben attestata anche nella seconda metà del secolo – eccezion fatta per la breve stagione del Neorealismo – e giunge a coinvolgere anche quella che è stata definita la “nuova narrativa italiana”, legata agli autori che hanno fatto il loro esordio negli anni Ottanta (da Palandri a Tondelli, da De Carlo a Brizzi). E a me pare che “Sposa in bianco, invitati in grigio”, il secondo romanzo di Luigi Pratesi (Siena 1984), nasca proprio all’ombra di questi scrittori. Il linguaggio, che strizza l’occhio al parlato (“Edo, non c’è alcuna storia con Carla. Zero, nisba, nada”), la sintassi veloce, la presenza di costanti riferimenti al mondo della canzone e della musica, certe situazioni che riecheggiano apertamente alcuni film di successo, specie legati al genere della commedia americana, l’individuazione, come movente delle azioni dei personaggi, per lo più giovani, di banali problemi quotidiani, sono tutti elementi che confermano questa impressione.
Tuttavia – e qui consiste l’indubbio merito del libro di Luigi Pratesi –, quanto di “letteratura” vi compare è filtrato e aggiornato alla luce delle trasformazioni socio-culturali intervenute negli ultimi venti anni anche in Italia. Il protagonista del romanzo, infatti, Gabriele, speaker radiofonico, è figlio di un’epoca, la nostra, segnata dal precariato, dal blocco dell’ascensore sociale, dalla frammentazione molecolare del tempo, dall’urgenza della velocità, dall’impossibilità di coltivare progetti a lungo termine. Non solo, ma l’indecisione che lo caratterizza, sia che si tratti di scegliere una cravatta sia che si tratti di riconoscere quella che potrebbe essere una buona compagna di vita, non è mai disgiunta dalla consapevolezza che oramai parole come “coppia”, “gruppo”, “amici”, raccontano soltanto una parte della verità dell’esistenza, poiché alla fine ognuno suona “la propria musica, ignorando la melodia dell’altro”. Vivere, da questo punto di vista, altro non è che un penoso tentativo di infliggere a sé e a gli altri il minor danno possibile. Il passo che segue è tratto dal primo capitolo, che già lascia intravedere l’ironia e la rapidità che contraddistinguono la scrittura di Luigi Pratesi.
“Da un’ora a quella parte non aveva fatto alcun progresso. L’eccitazione era stata sostituita dall’indecisione prima, dalla fretta poi e dall’ansia infine. Era come ritrovarsi in uno di quegli incubi in cui più ci si sforza, più la soluzione sembra sfuggire. Più si dice al corpo di sbrigarsi, più ci si accorge di rallentare. Ma il tempo, ovviamente, scorreva alla stessa velocità di sempre. Gabriele lo sapeva perché glielo dicevano la logica, l’esperienza e pure le lancette dell’orologio che portava al polso; un regalo di suo padre per il diciottesimo compleanno: “E non lo rompere come al tuo solito. Da solo vale più o meno quanto te”. Non lo aveva rotto. Ma c’erano voluti un paio di lifting per rinvigorirlo, con il cinturino in pelle rossa a fare da diversivo. Le lancette, però, non perdevano un secondo, Né lo guadagnavano, se è per questo. E dunque, eccolo al punto di partenza. Di nuovo. Lanciò un ultimo sguardo dubbioso intorno a sé, ostentando indifferenza, e batté in ritirata. Percorse l’intero corridoio, superò due porte e dribblò un borsone da calcetto dicendosi che non poteva farne a meno: doveva accertarsi di aver rimesso il cartone del latte in frigorifero. Una nobile impresa, salvare il latte dalla muffa, ma la verità era ben altra. Doveva fare una pausa e farla subito”.
Luigi Pratesi, Sposa in bianco, invitati in grigio, Alter Ego, Viterbo 2019
a cura di Francesco Ricci