La terra che il navigatore si lascia alle spalle, gli parla spesso della terra del prossimo approdo. O perché se la finge simile, magari più accogliente, o perché se la immagina profondamente diversa e, in quanto tale, in grado di schiudergli le porte di una nuova esistenza. Un libro di viaggi – di partenze e di ritorni, di ormeggi recisi e di ancoraggi inattesi – è anche l’ultima raccolta di liriche di Maria Giovanna Mussio, “Poesie dall’Arcipelago”. Già la semplice lettura dei singoli titoli lo suggerisce (“Montecristo Island”, “Talamone”, “Veranda a Senzuno”, “Valle del Farma”, “From Tuscia with love”, “San Galgano-Montesiepi”), già uno sguardo gettato alle principali occorrenze lessicali lo conferma (“mare”, “onda”, “passare”, “andare”, “viaggiare”, “via”). Un viaggio, quello dell’io lirico, che concerne e coinvolge lo spazio non meno che il tempo.
La memoria autobiografica, infatti, conduce talora la poetessa a confrontarsi con una stagione della propria vita ormai remota (“Veranda a Senzuno”, “Viaggi”); analogamente, la memoria storica la porta a recuperare epoche distanti, avvolte dal mito e dal mistero (“Fantasie d’altri tempi”, “Tuscia”). La conseguenza è che il ricordo viene a porsi come tema di fondo al centro della silloge poetica, collocandosi accanto a quello del viaggio, che ora appare legato a una reale esperienza di vita, ora appare suggerire un valore eminentemente allegorico. Qualunque sia, però, il tipo di significato che esso possiede, a intraprenderlo e a darne conto è sempre lo stesso io lirico, che a me pare rimandare – e da qui discende la sua originalità – tanto a una concezione del soggetto cristiana (quale è possibile rinvenire, in particolare, dietro all’arte romanica e all’arte gotica) quanto a una concezione del soggetto quale fu elaborata dalla cultura di fine Ottocento, specie in area mitteleuropea. Detto in altri termini, l’io lirico, unitario e fornito di una prospettiva dall’alto, che ripropone la figura medievale dell’”homo viator”, il quale è un pellegrino, mai un viandante, nel senso che ha ben presente la meta (e lo scopo) del proprio andare lungo le strade del mondo, convive con un io – ed estremamente significativa è, al riguardo, l’immagine dell’arcipelago richiamata dal titolo – che si rivela discontinuo, molteplice, disgregato, privo di centro: insomma, il senso latita, gli accadimenti si fanno opachi, la meta (e lo scopo) non c’è.
Tradizione e modernità, dunque, non costituiscono solamente i termini che definiscono lo stile di Maria Giovanna Musso, ma anche le parole che consentono di suggerire la visione che lei possiede dell’uomo e del mondo, che vede la compresenza di totalità e di disarticolazione della realtà, di armonia e di caos. Ma a imporsi sono i primi termini che entrano a formare queste due coppie oppositive, vale a dire la totalità e l’armonia. L’oltre e l’altrove che ogni viaggio comporta e presuppone, infatti, sono percepiti come l’Oltre e come l’Altrove, come la sola casa dove tornare non procura un senso di acuta nostalgia originata dalle trasformazioni che, durante la nostra assenza, hanno avuto luogo (l’invecchiare, il consumarsi, il morire). Tale dimora, piuttosto, dona al soggetto la conferma riposante che i nostri passi da sempre avevano una direzione, nonostante gli inciampi, le cadute, le sofferenze, che hanno accompagnato il nostro cammino, il nostro viaggio. La poesia che segue, intitolata “Corsica”, è collocata in apertura di raccolta, la quale è splendidamente prefata da Francesco Petrocchi e arricchita del contributo di Pier Giorgio Zotti.
Alpi incastonate nel mare,
tra il blu cobalto
e l’azzurro cielo,
candide creste
sfumate all’orizzonte
segnano, opaca,
una Terra senza Patria,
tradita, venduta,
fitta di boschi,
con una lingua propria,
sulla bandiera,
per simbolo, un pirata.
Maria Giovanna Mussio, Poesie dall’Arcipelago, CS Edizioni, Grosseto 2022
a cura di Francesco Ricci
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