La metà degli anni Settanta (“Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo) e gli inizi degli anni Ottanta (“Il nome della rosa” di Umberto Eco) dello scorso secolo hanno visto in Italia la rinascita del romanzo storico. Sia che il passato venga inteso, per usare le parole di Lukács, come la “preistoria del presente” sia che, invece, venga colto nella sua sostanziale alterità rispetto alla contemporaneità, non pochi sono stati gli scrittori che si sono cimentati con questo sottogenere del romanzo. Tra questi anche Marialuisa Bianchi, molisana di origine ma residente a Firenze, che da poco ha dato alle stampe “Ekaterina. Una schiava russa nella Firenze dei Medici”, che narra le vicende, come il titolo suggerisce, di una giovanissima donna “bionda e senza segni sul viso, solo una piccola croce tatuata sul polso”, che è stata comprata da messer Lapo Dovizzi, ricco mercante toscano, e da sua moglie, monna Vaggia.
Coniugando storia e invenzione – attiva appare la lezione di Manzoni – e affiancando personaggi realmente esistiti (Cosimo il Vecchio, il vescovo Antonino) a personaggi frutto di fantasia (a partire dalla protagonista), Marialuisa Bianchi ci offre un affresco della Firenze della metà del XV secolo, nella quale la bellezza architettonica e artistica coesiste con aspetti decisamente più prosaici (la miseria, la malattia, la violenza, la malvagità). Opera complessa, preparata da un attento studio delle fonti (cronache, diari, lettere) e costruita combinando il romanzo storico con motivi e atmosfere provenienti dal racconto picaresco, dalla novella, dalla commedia, dalla letteratura di viaggio, “Ekaterina. Una schiava russa nella Firenze dei Medici” è un libro che si fa apprezzare e amare sotto diversi punti di vista: come guida della Firenze medicea, prima che i cambiamenti intervenuti nel corso dell’Ottocento ne trasformassero l’aspetto; come celebrazione della capacità dell’essere umano (in questo caso della donna) di contrastare la Fortuna, secondo il magistero di Leon Battista Alberti e, successivamente di Niccolò Machiavelli; come avvincente racconto che mescola destini ed esistenze. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Chiudo gli occhi forte forte, stringo i pugni. Mi concentro e trattengo il respiro. Provo a far tornare la faccia di babushka, le rughe sulla fronte incise come i solchi dell’aratro. Sento le sue mani calde e ruvide. Sono rosse di freddo e mi stringono facendomi male. Provo la magia che mi ha insegnato… La filastrocca del gatto nero che sposò la gatta bianca e incontrò la mano stanca che…ma, vedo solo i suoi occhi azzurri che mi fissano e si allontanano. Due farfalle che volano via lassù fino al pennacchio del palazzo e poi li perdo. “Katinka, Katinka”, mi sento chiamare. “Svegliati che fai? Vuoi farti picchiare dalla padrona, sai che non possiamo restare qui da sole!”. Non voglio aprire gli occhi, ce l’ho quasi fatta: sento i piedi formicolare che mi sollevano, le braccia sono leggere, il fazzoletto è scivolato dalla testa… “Sei impazzita Katinka. Ti senti male?”. “Vai via, vai via” urlo dentro di me, non posso aprire la bocca, devo finire la filastrocca, devo, devo… Buio. Comincia il racconto da un paese che si chiama terra di Rus’, rivestito di foreste di betulle e d’inverno avvolto sempre sotto un manto di neve candida. Una coperta soffice che protegge i semi dal freddo, mentre gli uomini si riparano con le pellicce. A volte il freddo era così forte che lo sentivi pungere la faccia e se non correvi via in fretta rischiavi di rimanere congelata”.
a cura di Francesco Ricci
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