Se è vero, come ha scritto una volta il giornalista Lorenzo Mondo, che “dare voce agli assenti è la suprema forma d’amore”, allora anche la pubblicazione postuma di un libro deve essere interpretata, prima di tutto, come un grandissimo gesto d’affetto. In quelle pagine, infatti, – attraverso quelle pagine – continua a sopravvivere un mondo, quello del defunto (“la voce dell’assente”), che è sempre un mondo plurale, dal momento che ogni uomo nel corso della sua esistenza intesse dei legami (nodi d’amore, vincoli sociali) i quali finiscono con l’allargare a dismisura l’orizzonte individuale. Ecco perché si può morire soli (magari in un’asettica corsia d’ospedale o al chiuso di un’abitazione fatiscente), non si muore, però, mai da soli: con noi, infatti, trasciniamo via tutti coloro che abbiamo incontrato e conosciuto.
Nessun scrittore meglio dell’argentino Borges è riuscito a esprimere questa coralità del morire, questo vanire e svanire, cioè, di sguardi, di parole, di confidenze, che abbiamo fatto e che abbiamo ricevuto, dando loro la consistenza, e magari neppure ce ne siamo accorti sul momento, di indelebili tracce. Di conseguenza, la pubblicazione di un testo di natura autobiografica – anche parzialmente autobiografica – costituisce sempre un atto d’amore: nello stesso istante in cui restituisce vita all’io narrante, infatti, ci parla – rende loro vita – di tutte le persone da lui incontrate lungo il proprio cammino. Anche “Racconti e dintorni”, il libro recentemente pubblicato di Mario Mezzedemi, nato a Buonconvento nel 1935 e morto nel febbraio del 2014, si viene a collocare all’interno di questo tipo di scrittura che io amo definire “salvifica”, assumendo questo aggettivo in una duplice accezione di significato.
Da un lato, essa mette al riparo dall’oblio le esistenze che hanno intrecciato il loro destino a quello dell’autore; dall’altro, aiuta quest’ultimo a rinvenire, quasi “après coup”, un senso alla sua presenza nel mondo, il solo che possa riscattare dal dolore e dalla delusione . Il passo seguente è tratto dal capitolo iniziale.
“Federico Lombardi era il mio nonno materno. Nato nel 1880, aveva fatto tutta la guerra 1915-1918 con il grado di caporale o caporalmaggiore. Morì nel 1941 all’età di sessantuno anni quando io ne avevo solo sei. Nel mio primo periodo di vita nonno Federico è stata la persona che ho frequentato di più. Quando era possibile, perché la stagione lo permetteva, uscivamo sempre a passeggio andando in piazza del Campo (facilmente raggiungibile da via Pagliaresi dove noi abitavamo) o ai giardini della Lizza. Credo che fosse alto poco più di un metro e settanta, aveva un portamento eretto, spalle larghe, un’andatura e un atteggiamento distinti. Evidentemente amava sia me sia mio fratello di cinque anni più grande, ma per affinità di carattere era più vicino a me. Io come lui ero mattiniero e quando la mamma ci svegliava per mandarci rispettivamente all’asilo e a scuola io balzavo subito dal letto mentre mio fratello si girava dall’altra parte, si metteva il cuscino sulla testa e continuava a dormire. Questa pigrizia di mio fratello Fernando lo indisponeva e la mamma, per evitargli arrabbiature, gli consigliò di rimanere a letto quando lei ci svegliava”.
a cura di Francesco Ricci
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