In un romanzo, come è noto, l’incipit riveste grandissima importanza. Lo sanno bene gli scrittori, che giocano con le numerose variazioni che esso offre (la modalità incipitaria abbraccia, infatti, la descrizione di un luogo, una riflessione filosofica, una cornice, la presentazione del narratore, una conversazione già iniziata), lo sanno bene i lettori un po’ scaltriti, che possono riconoscere senza troppe difficoltà quale patto narrativo gli viene proposto. Anche in presenza di una raccolta di racconti, però, gettare uno sguardo d’insieme sui diversi incipit dei testi che la compongono può risultare un’operazione tutt’altro che inutile.
Consideriamo, ad esempio, l’ultima fatica letteraria di Massimiliano Bellavista, “Dolceamaro” (Lit edizioni). Scorrendo le prime righe degli otto racconti, accade di imbattersi ora in un narratore interno ora in un narratore esterno, ora in uno spazio consueto e riconoscibile ora in uno spazio indistinto, ora in una cornice temporale ben determinata ora evanescente, in un caso perfino fiabesca (“C’era una volta un re, che pianse e si disperò…”). La stessa presentazione dei personaggi pare sottrarsi a ogni criterio di univocità, pur rifuggendo costantemente dal ritratto-descrizione accurato e definitivo. Se insisto su questi aspetti tecnici, è perché con “Dolceamaro” ci troviamo al cospetto di un’opera nella quale a essere centrale è proprio la scrittura. Con questo non intendo certo dire che non sia importante quanto ci viene narrato; voglio semplicemente riconoscere il primato del “come” sul “cosa”.
Raffinato lettore e profondo conoscitore della letteratura (specie postmoderna), Bellavista ricorre a una “scrittura di secondo grado”, vale a dire una scrittura nella quale gli echi, le riprese, le citazioni, i rimandi alla tradizione (l’immensa biblioteca universale) abbondano e fanno dello scrittore una sorta di “bricoleur”, attento a individuare e a ricontestualizzare non semplicemente tessere narrative e immagini, ma anche un tono, un ritmo, un’atmosfera incontrata in un altro autore. E tuttavia sbaglieremmo a considerare “Dolceamaro” alla stregua di un elegante gioco formalistico-retorico, una sorta di pezzo di bravura. Percepibile, infatti, è la funzione difensiva che la scrittura è chiamata da Bellavista a svolgere, pagina dopo pagina.
Difensiva rispetto a cosa? A un’esistenza (la propria, quella di tutti gli uomini) che non lascia intravedere né significati ultimi né direzioni, che procura ferite e traccia solchi tra le persone, e che solamente se assunta sul piano dell’arte (il libro) può essere almeno in parte capita e in parte addomesticata. La stessa centralità della similitudine – autentico marchio della scrittura di Bellavista – con funzione spiccatamente comunicativa offre testimonianza, a livello stilistico, di come i racconti di “Dolceamaro” nascano dal proposito di reagire all’angoscia che afferra l’autore ogni volta che la verità dell’esistenza (il dolore, la latitanza di senso) si mostra in tutta la sua incontrovertibile evidenza. Il passo che segue è tratto dal primo racconto, intitolato “La città e i suoi falsi santi”.
“Per la prima parte del percorso Momo e io procediamo in silenzio, lentamente, molto lentamente. Se i nostri piedi fossero strumenti musicali e la nostra passeggiata notturna uno spartito punteggiato di passi si direbbe che camminiamo più o meno in quattro quarti. Momo dice che la città da tempo non dorme e che compiere una passeggiata notturna non significa andare ambiziosamente a caccia del mistero, del diverso o di chissà quale sogno da realizzare: significa semplicemente vederla nel suo momento più vitale. Di giorno la città è quasi morta, se fosse un corpo si troverebbe in una sorta di coma farmacologico, proverebbe troppo dolore a svegliarsi, scoprendosi vuota. Di giorno tutti si spostano verso le periferie come fanno i pesci che chissà perché nuotano sempre lungo il bordo esterno dell’acquario. Di notte invece tutto torna in ordine. Di notte la città ha davvero gli abitanti che conta all’anagrafe, le case si animano e si riscaldano, i suoi miliardi di tubazioni fremono come vene in preda all’eccitazione, il tanto spazio lasciato vuoto viene occupato da corpi in movimento. Di notte si ha il tempo per mettere mano a quello che i giorni frenetici vissuti a chilometri di distanza impediscono di fare”.
a cura di Francesco Ricci