All’interno della produzione letteraria di Massimiliano Bellavista “Immagini in una pagina bianca” si sottrae a ogni facile e canonica definizione di genere. La qualità della scrittura è altissima, d’accordo. Ma cos’altro aggiungere? Cos’altro suggerire al lettore per fargli comprendere la natura del testo che abbiamo dinanzi? È un romanzo, questo è sicuro, questo è possibile dirlo. Di più, è un romanzo nel quale la storia convive con l’invenzione, il vero col verosimile. La vicenda narrata, infatti, che abbraccia all’incirca ottanta anni – ma centrali, per il rilievo che possiedono, sono gli anni del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni Ottanta – è ricca di riferimenti a quanto realmente accaduto in Italia dopo l’8 settembre del 1943, propone al lettore una geografia che gli è nota e familiare (Milano, Firenze, Siena, Roma), raduna personaggi, istituzioni, enti, organizzazioni, spazi, movimenti culturali, che è possibile rinvenire in un saggio o in un volume di storia dell’ultimo anno del corso di studi. Dall’altro lato, però, non minore è l’importanza accordata a ciò che non è stato, ma che avrebbe potuto essere, a ciò che (o a chi, come Edward Rossi, la voce narrante) non è mai esistito, ma che, se fosse esistito, sarebbe stato, tenendo conto delle circostanze e degli eventi, probabilmente così come viene tratteggiato dall’autore. Ma oltre al riconoscimento dell’incidenza che la rappresentazione del reale possiede nell’impianto complessivo dell’opera, cos’altro è possibile dire in relazione a “Immagini in un una pagina bianca”? La prima cosa che balza evidente agli occhi è il debito che il libro manifesta verso il genere giallo. C’è un mistero da risolvere relativo alla scomparsa di un disegno di Raffaello, la cosiddetta “Madonna del Velo” e, di conseguenza, c’è un’inchiesta, che si rivelerà molto rischiosa, da condurre, con tutto ciò che ne scaturisce, per il lettore, a livello di tensione e di suspense. Un altro elemento che, a mio avviso, non deve essere passato sotto silenzio è l’analisi psicologica dei personaggi, a partire, naturalmente, da quello di Edward Rossi.
La scelta di Massimiliano Bellavista di alternare i piani temporali e di fare ampiamente ricorso, accanto al discorso diretto, al discorso indiretto e al monologo interiore, gli consente di portare alla luce la dimensione interiore del protagonista, la quale patisce le trasformazioni che il tempo e le vicende della vita, soprattutto quelle più dolorose, inducono e introducono nella coscienza. Giova ricordare che, nella finzione, il libro si presenta come una sorta di “memoriale” – meglio, come un diario – che l’editore Robert Duffy, è autorizzato a pubblicare solamente dopo che è morto colui che lo ha scritto. Ciò, naturalmente, determina uno scarto tra l’io narrante e l’io narrato: “Devo scrivere un diario prima che si trasformi in un libro di memorie (…). Però si sbaglia, scrivere è molto più stancante per un vecchio”. Ancora, “Immagini in una pagina bianca” a volte pare aprire al lettore una finestra sui “Ricordi” di Guicciardini e sui “Saggi” di Montaigne, in virtù della rappresentazione asciutta e disincantata dell’umanità. Da questo punto di vista, il conflitto armato, coi suoi orrori, amplifica, e non genera “ex nihilo”, la cattiveria degli uomini, i quali, comunque, in tempo di pace come in tempo di guerra, sono capaci, accanto a tante nefandezze e crimini, anche di gesti sublimi, come, ad esempio, mettere a rischio la propria vita per salvare o ritrovare le grandi opere d’arte perdute. Infine, “Immagini in una pagina bianca” strizza l’occhio a uno dei capolavori di Roland Barthes, “La camera chiara”. Non solo, infatti, il protagonista del romanzo è immaginato essere amico e collaboratore di Carl Mydans (1907-2004), grandissimo fotografo statunitense, ma perché abbondano le considerazioni – Barhes avrebbe parlato di “note” – su quel medium particolarissimo che è la fotografia, “falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo”, considerazioni svolte da chi ne sa molto in materia. Il passo che segue, che costituisce la pagina iniziale del romanzo, introduce proprio una riflessione intorno alla fotografia.
“Posso farvi una domanda? Che cos’è per voi una fotografia? In che rapporto sta con la vostra esistenza? E con la vostra storia? Se possedete una soffitta o una cantina, cercate i vostri album di famiglia. Invariabilmente, ne troverete alcuni perfettamente tenuti, grossomodo fino agli anni novanta. Più andrete indietro in quelle pagine e più noterete che la carta si fa pesante, solida. Le foto di prima, quelle in bianco e nero, stanno a quelle di oggi come gli incunaboli del Quattrocento in pergamena stanno ai moderni libri di stampa. Se poi avete la pazienza di togliere la polvere e aprire gli scatoloni, c’è sempre un album che è rimasto riempito a metà, incompleto. Quello è il momento della grande e silente transizione. Da quel momento, i ricordi sono divenuti digitali, impalpabili come i pensieri. Sempre in cantina o in soffitta, se non le avete già gettate durante qualche trasloco, troverete delle riviste illustrate, spesso di grande formato, ricchissime di immagini. Anche questo flusso di foto e documenti si interrompe, ma un po’ prima, di solito verso la fine degli anni settanta. Dopo, sono lentamente passate di moda. “Life”, rivista che ha fatto la storia del fotogiornalismo con tirature di milioni e milioni di copie, ha chiuso nel 1972. Mi chiamo Edward Rossi e credo proprio di avere qualcosa da raccontare a questo proposito, perché sono stato uno di quelli che facevano quelle foto e tenevano quegli album. Forse la mia firma è presente in molte delle vostre cantine, sotto la scatola dove tenete gli scarponi da sci o la cesta dei vecchi giocattoli”.
Massimiliano Bellavista, Immagini in una pagina bianca, Betti, Siena 2024
a cura di Francesco Ricci