L’ultimo “romanzo per episodi” di Massimiliano Bellavista è un romanzo di confine. Per essere più preciso, è un romanzo dal confine, nel senso che nasce nel punto d’urto di due zolle di terra distinte. E la scommessa, splendidamente vinta dall’autore, è proprio quella di convertire tale urto tellurico in incontro, in morbido contatto. Ma quali sono queste due zolle di terra distinte e collidenti? In prima battuta, si sarebbe tentati di identificarle con la realtà e con il sogno, e dunque con la logica e il linguaggio della realtà e la logica e il linguaggio del sogno. Identificazione plausibile, probabilmente corretta. Senonché la cura estrema con la quale ogni parola è scelta, posta accanto ad altre, calata nel contesto della frase e del periodo – come perla sapientemente infilata in una collana – lascia comprendere che ad agire con maggiore forza è una seconda contrapposizione: quella tra scrittura diurna e scrittura notturna.
Se la prima, come ha osservato Claudio Magris parlando di Ernesto Sabato, consente di esprimere ciò che lo scrittore consapevolmente pensa o ama o condanna, la seconda, invece, permette di dare voce a ciò che i suoi demoni interiori e i suoi sosia, nascosti nelle profondità dell’io, dicono. E accade, di sicuro può accadere, che quanto lo scrittore diurno afferma, venga smentito e capovolto da quanto lo scrittore notturno dichiara. Di solito, però, questa diversità di scrittura comporta anche l’individuazione e la pratica di generi letterari differenti. Si pensi, per restare al grande scrittore argentino, all’autobiografia-saggio “Prima della fine” e al romanzo “Sopra eroi e tombe”. In Massimiliano Bellavista, invece, è il racconto o, per meglio dire, “il romanzo per episodi”, che vede coesistere scrittura diurna e scrittura notturna. A rivelarlo non è solamente la materia che viene affrontato, e di cui già una rapida occhiata gettata sopra l’indice dà sufficientemente conto (“Rave”, “La neve negra”, “Ragni”, “Il canguro”, “Cardioversione”, “Agosto”, “Strega comanda colore”, “L’arpa che giace”, “La donna che prega”, “Intermezzo: dialogo acido con la pagina bianca”, “Altro intermezzo: Dio”, “La visitazione”), quanto lo stile, la sintassi, il lessico impiegati. E come verosimile e inverosimile ora si alternano nei racconti ora si fondono nel medesimo racconto, lo stesso accade col discorso verbale, ora rivolto a spiegare e chiarire le cose ora frantumato, a tratti imprevedibile, evocativo, tumultuoso. Vero è che – è questa almeno la mia impressione – la bilancia pende dalla parte di una scrittura fortemente espressionistica, il che equivale a dire fondamentalmente deformante. Spia, quest’ultima, di un rapporto tutt’altro che cordiale con la realtà, spesso opaca e insondabile, e con l’esistenza, la quale con noncuranza getta l’uomo in abissi di irrimediabile e dolente solitudine, mentre nell’aria primaverile il diffondersi del profumo dei fiori colorati ci ricorda che la vita sa essere anche molto bella. Ma perché non è lo quasi mai ora, nel presente, in questo preciso istante? Il passo che segue è tratto dal racconto-capitolo iniziale, intitolato “Rave”.
“L’estate era stata secca, aveva spremuto la terra. Giovanni, chiuso nella sua campana di silenzio, si affacciava alla finestra: ci vedeva affiorare i suoi pensieri di sedicenne, neri come ragni affusolati, veloci e rossicci; a lungo sepolti, perché quella terra era come la sua mente, fertile ma incolta. Suo padre, contadino figli di contadini, non aveva mai voluto farne un giardino. Ognuno di quei pensieri gli riscaldava la mente. Una tacca di mercurio rosso nella testa, stille di sudore a ricamargli la fronte, caldo sotto le ascelle e tra le gambe, prurito agli occhi, bocca cucita dall’arsura. E c’era la gola che ormai sdegnava persino l’acqua. Da qualche tempo la sua gola, il suo palato, le sue labbra schifavano i sapori della casa e cercavano altro. La casa dove viveva coi suoi genitori e la sorella maggiore, Claudia, di due anni più grande. Là dove c’era il bosco fitto gli rispondeva la corte della fattoria, che sommava l’ombra degli alberi a quella dell’Est, perché il sole riusciva solo per poco tempo, e solo di mattina, a farsi largo debolmente dal basso nelle stanze e ad attraversare la vetrata del soggiorno. Dal lato opposto a ovest, c’era la ruvida facciata in pietra cotta, a seconda delle stagioni, dal sole e dal ghiaccio. La spaziosa aia, pavimentata con pietre del posto, si fondeva invece con la sponda sassosa e tondeggiante della stretta valle, contorta e convoluta in una piega che rassomigliava a un orecchio, e conduceva alle sorgenti del torrente Baia attraverso i campi. La casa, insomma, faceva da ponte: bilanciava i due mondi, quello chiuso e fitto dell’oscurità umida e quello aperto della luce ardente o del ghiaccio mordente”.
Massimiliano Bellavista, La confutazione dei sogni, Castelvecchi, Roma 2022
a cura di Francesco Ricci