Il Palio di Siena genera storie e alimenta leggende. Cavalli, fantini, dirigenze, popoli. Ciascuno di loro vive in equilibro tra la verità dei fatti e l’amplificazione di questi operata dalla fantasia, che finisce col conferirgli un tratto di esemplarità. E quando tale rapporto si risolve a favore della seconda componente (la leggenda), ecco che il dono elargito in sorte agli uomini – in questo caso ai membri di una comunità – è quello dell’immortalità del nome.
Una conferma, in tal senso, ci viene offerta dall’ultimo delizioso libro di Massimo Biliorsi (“A cavallo di una fiaba”, extempora edizioni). Si osserva la copertina, si iniziano a sfogliare le pagine, si scorrono le fotografie (Studio Fotografico Lensini) e a venire incontro al lettore sono i frammenti di una memoria collettiva, condivisa: Urbino de Ozieri, Bella Speranza, Panezio, Benito, Preziosa Penelope, Fedora Saura, Pytheos. Diciassette cavalli in tutto, tanti quante sono le contrade di Siena. Diciassette vittorie nella Piazza più bella del mondo. Diciassette rioni cittadini in trionfo, sollevati, stremati, schiacciati da una gioia che si pone al di là di ciò che è umanamente esprimibile.
Come avviene con l’amore, come avviene con la follia. Con grande acume Massimo Biliorsi, da autentico contradaiolo e profondo conoscitore della Festa quale è, sceglie che a parlare siano gli stessi cavalli – ed ognuno è connotato da un proprio modo di esprimersi – quasi che del Palio fosse sì consentito stendere la storia, ripercorrerne le origini, spiegarne il regolamento, ma non fosse possibile raccontare le emozioni legate alla vittoria, le quali, nella loro incandescenza, esulano dall’ambito propriamente umano.
Come accade con l’amore, come accade con la follia. E cos’altro è, la nostra Festa, se non la più grande follia d’amore? Ecco, allora che, al pari di una fiaba, la parola viene affidata a Choci, a Istriceddu, a Berio, a, come nel brano che apre il libro, Urbino de Ozieri, che ricorda la sua vittoria, montato da Aceto, del 16 agosto 1979 per i colori dell’Aquila.
“Eppure mi avevano avvertito gli altri colleghi-cavalli nel fresco dell’Entrone, prima che si corresse il Palio: “Stai attento, Urbino, che se vinci anche questo non ti prendono più a correre! Sei troppo forte! Stai diventando scomodo, scomodo e noioso!” E cosa avrei dovuto fare? Io non rispondevo alle loro provocazioni, agli sguardi cattivi, mentre il barbaresco dell’Aquila mi accarezzava affettuoso. E cosa avrei dovuto davvero fare? Correre più piano? Partire in ritardo? Sì, ci potevo anche provare ma poi, nel vivo della corsa, lo so che mia abitudine è rasentare l’ultimo colonnino prima della curva di San Martino e poi buttarmi giù verso il palco delle comparse, in scioltezza, guardando rapido la gente nei palchi con gli occhi pieni di meraviglia per il mio splendido galoppo. Lo so che avete ragione voi: dopo il mio esordio nella Chiocciola gli altri due li ho stravinti nella Selva e nella Pantera. Eppure c’erano colleghi illustri come Rimini, Panezio, Saputello, tanto per dirne qualcuno, tutti signori cavalli che poi hanno finito per guardarmi con gli occhi pieni di invidia. E adesso attorno a me altri, che mi invocano di lasciare loro un po’ della gloria eterna del Palio. Ecco Utrillo e poi Quebel, perfino quel signore aristocratico di Torquato Tasso che vorrebbe essere portato in trionfo. Li capisco anche alla mossa, in quella lunga interminabile mossa con il mio compagno d’avventura Aceto, che non mi fa sprecare nemmeno la più piccola energia perché è furbo come una volpe. Insieme siamo un’unica cosa. Una stella che brilla”.
a cura di Francesco Ricci
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