Ci sono romanzi tragici e ci sono romanzi che sono tragedie. I primi rinvengono il loro tratto caratterizzante nell’epilogo cruento, disperato, funesto. I secondi, invece, sono contraddistinti dalla presenza di uno spirito tragico, che tanto li fa assomigliare ai drammi attici del V secolo a.C. Ma cosa intendo con spirito tragico? L’improvviso e irreversibile rovinare da un’iniziale situazione di felicità e prosperità verso una conclusione la quale, per quanto tristissima, sembra comunque rientrare in un disegno superiore, che trascende la possibilità di scelta e di azione del singolo individuo.
Dunque, la tangenza con l’opera di Eschilo, Sofocle, Euripide, non deve essere ricercata né a livello di struttura (la coerenza, se non l’unità, di luogo, tempo, azione) né nella centralità accordata al dialogo e alla riflessione come strumenti per portare alla luce la verità, inizialmente negata o non colta. Piuttosto, tale legame con la tragedia greca è possibile coglierlo nel rilievo che possiede il concetto di destino, il quale si impone sempre e comunque, sia che l’eroe-protagonista lo accetti sia che lo rifiuti. Da questo punto di vista, anche l’ultimo lavoro di Massimo Granchi, “La bellezza mite”, è un romanzo tragedia. Certo, può venire letto pure come un romanzo di formazione, un romanzo sociale, un romanzo storico (la vicenda ha inizio negli anni Trenta dello scorso secolo, in Maremma). Tuttavia, “La bellezza mite” è, prima di tutto, un romanzo tragedia e lo è proprio per l’importanza che vi riveste l’idea di destino, la quale nell’ultima pagina s’impone al lettore con la forza dell’evidenza, allorché Elsa Beffigi, il personaggio principale, diretta da Scansano a Forlì, si ferma a Bologna. A quel punto, in quella sala d’attesa della grande stazione, lei si rende conto “di essere stata una donna fortunata e di aver aspettato inconsapevolmente quel giorno per anni”. Ma esiste una verità, antica quanto il mondo, la quale ci ricorda che il destino, quando lo si comincia a conoscere o riconoscere, si è già compiuto. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Maremma estate 1980. Quanto poco la conoscano le persone a Sacansano, ormai è risaputo. Eppure Elsa Beffigi è nata quarantatre anni fa in questo paese e non è mai andata oltre Grosseto, non ha mai viaggiato. Tutti sanno però delle sue mani da uomo e della sua abitudine di portare i pantaloni. La chiamano Magamanona dagli anni della scuola elementare. Lo fanno ancora oggi, ma in segreto perché ha meritato rispetto e la gente la teme. Queste sue caratteristiche sono state in passato, per lei, motivo di curiosità, collera e a volte disgusto nei confronti di se stessa. E’ immobile sul marciapiede mentre riflette sul fatto che poco le importa dei motivi di tanto spregio. Guarda il quadrante del suo orologio da polso. Le ore diciassette sono trascorse da cinque minuti. Avrebbe potuto capirlo con l’istinto e la capacità di interpretare la luce naturale, le inclinazioni delle ombre e gli odori dissolti nell’aria. E’ metà luglio e il vento soffia dal mare di Alberese portando nel borgo aromi di mucillagine e resina”.
a cura di Francesco Ricci
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