Ci siamo finiti dentro tutti, ma proprio tutti. Abisso, dirupo, voragine. Persone semplici e laureati, operai di fabbrica e avvocati, casalinghe e intellettuali. Il più prudente realismo e la più sfrenata fantasia. Il candore e la malizia. La prudenza e l’ingenuità. Ci sono finiti dentro tutti, ma proprio tutti. Non hanno visto, non hanno mai saputo, non sono stati neppure sfiorati dal sospetto che qualcosa di simile potesse accadere, fosse già accaduto. Alcuni hanno mentito, ma molti sono stati sinceri. Perché la soluzione finale della questione ebraica si pone al di là dell’immaginabile, del pensabile.
Infatti l’Inferno, quando da evento esperito diviene oggetto di concettualizzazione, un limite lo possiede ancora. Conosce dei confini, delle barriere, delle frontiere, che consentono alla mente di afferrarlo, di abbracciarlo e, in un certo senso, di addomesticarlo, così da non venirne schiacciati. Ma la soluzione finale della questione ebraica no, essa si colloca veramente al di là di ciò che può essere immaginato, può essere pensato. È oltranza, è eccesso. È davvero l’abisso, il dirupo, la voragine della storia dell’uomo. Concepita nel cuore della civilissima Europa, nella patria di Goethe e di Schiller, la Endlösung der Judenfrage ha spalancato la porta all’irruzione in terra del Male assoluto e ha trasformato in colpa – la “colpa metafisica” di cui parlò il filosofo Karl Jaspers in una serie di conferenze tenute nel 1946 – il semplice essere sopravvissuti: “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”.
Tra i “sommersi” (“I sommersi e i salvati” dell’immenso Primo Levi) di questa violenza bestiale e spaventosa ci fu anche Arpad Weisz, ebreo nato a Solt, in Ungheria, nel 1896, e morto in Polonia, nel 1944, nel campo di concentramento di Auschwitz. Non gli servì a niente essere stato un buon giocatore. Rimaneva un diverso. Non gli servì a niente avere vinto da allenatore tre scudetti in Italia, uno con l’Ambrosiana di Milano, due col Bologna. Ad attenderlo c’era comunque un vagone merci. Non gli servì a niente avere scoperto e riconosciuto il talento cristallino di Giuseppe Meazza. Anche a lui era destinato un numero tatuato sul braccio. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, riparò con la famiglia nei Paesi Bassi. Quando anche questi furono occupati dai tedeschi, venne dapprima deportato nell’Alta Slesia, poi ad Auschwitz, dove trovò la morte in una camera a gas. Come sua moglie. Come i suoi figli. Come milioni di altri ebrei. Alla sua figura, umana e sportiva, il giornalista Matteo Marani ha dedicato un bellissimo libro, intitolato “Dallo scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo”. Il passo che segue ne costituisce l’incipit.
“È fermo, in piedi vicino a una colonna. Ha il solito cappello calato sulla fronte e una giacca pesante, ché inizia a fare caldo in quest’aprile assolato del 1938. Visto da lontano, Arpad Weisz non è alto e non è basso. Non è bello e non è brutto. È. È un uomo normale, nelle forme fisiche quanto nel volto. Eppure basta osservarlo per qualche istante per non staccargli lo sguardo di dosso. Ha qualcosa di misterioso e insieme di magnetico, una faccia simpatica e intelligente, che si scopre lentamente. Il sorriso è vago e indefinito, ma possiede anch’esso una strana magia. La stempiatura, benché evidente, non lo rende più vecchio dei suoi quarantadue anni. In una domenica pomeriggio che per il pubblico è stata di divertimento, lui ha finito solo da poco di lavorare. Weisz è un allenatore, un allenatore di calcio da una dozzina di anni. In pratica, ha cominciato quando veniva calata la prima pietra di questo stadio fuori dal quale si trova adesso ad attendere i giocatori, costretti dalla rottura del riscaldamento a usare le docce della piscina attigua al campo, tra altri nuotatori scandalizzati. Lui è lì ad aspettarli”.
Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz, Aliberti, Reggio Emilia 2012
a cura di Francesco Ricci