Scrivere un libro, un buon libro, ispirato a fatti realmente accaduti non è facile. Il rischio è duplice. Da un lato, c’è il pericolo di compilare (impiego di proposito questo verbo) un testo informato, preciso nella ricostruzione degli eventi, attento ai nessi cronologici e causali, ricco di testimonianze, dirette e indirette, rigoroso nella presentazione dei documenti, ma che alla fine somiglia tanto a una silloge degli articoli di giornale dedicati all’evento: opera figlia dell’intelletto. Dall’altro, c’è il pericolo di bruciare rapidamente il fatto di cronaca e di scrivere un libro nel quale la finzione sottrae spazio alla realtà, al punto che quel delitto diviene un delitto, quella rapina diviene una rapina, quell’incidente diviene un incidente: opera figlia della fantasia, nella quale tutti si possono ritrovare e nessuno, però, riconosce più la notizia che per giorni (o settimane) è stata oggetto di confronto e di discussione in televisione, sui quotidiani, tra le persone. Michele Taddei con “Cuore di Giglio.
Storie di naufragi e utopie, di terra e di mare” accetta di affrontare questo duplice rischio e vince la sfida. Il libro, infatti, che prende le mosse dal naufragio della nave da crociera Costa Concordia al largo dell’Isola del Giglio, il 13 gennaio 2012, si sottrae a ogni rigida (e arida) distinzione di genere, combinando il reportage con la letteratura di viaggio, con l’autobiografia, col “romanzo di formazione” (la maturazione del personaggio-narratore), con la ricerca etnografica. Il risultato finale è un testo gradevolissimo, nel quale la storia locale s’intreccia con la storia nazionale (dal 2012 al 2014), la geografia fisica e umana di un territorio meraviglioso convive con frequenti incursioni nei paesaggi letterari, restituendoci intatta la fisionomia di una comunità, quella degli abitanti dell’isola del Giglio, fedeli a certi valori nonostante e al di là di un fatto di cronaca, che avrebbe potuto mutarla per sempre. Il passo che viene riportato è tratto dal primo capitolo, intitolato “Viaggio di andata”.
“Com’è che si finisce su un’isola? Soprattutto se piccola? Le variabili possono essere infinite ma la maggior parte delle persone ci capita per vacanza, in estate. Nel tempo delle ferie, per un fine settimana o un giorno, toccata e fuga, oppure solo poche ore con una minicrociera partita dalla terraferma. Sono i vacanzieri. Altri ci vivono per periodi più lunghi, compresi la primavera e l’autunno, perché vi comprano una casa e adottano quel posto come loro rifugio. Mentre pochi si ritrovano su un’isola per lavoro, costretti a passarci anche i duri e lunghi mesi d’inverno. Una parentesi della loro esperienza lavorativa frutto, sperano, di future promozioni. Disagio che dovrà essere ripagato con rapidi avanzi di carriera. Bancari, dipendenti di Posta e di Comune, professori di scuola media e maestri elementari, carabinieri, personale militare. Difficile immaginare altre attività di forestieri che si insediano perché gli isolani, se possibile, mirano all’autosufficienza occupazionale. E non c’è posto di lavoro che non possano ricoprire se a farlo deve venire uno da fuori, ma alcune caselle proprio non riescono ad occuparle. Sono i temporanei. Ci sono, poi, quelli che vivono sull’isola perché ci sono finiti per caso o per uno scherzo di geografia. Hanno eletto quella terra in mezzo al mare come loro seconda possibilità. Sono attratti dal mito dell’isola deserta vagheggiata da Pascal, vogliono isolarsi non per sfuggirsi, cosa impossibile, casomai per ritrovare se stessi. Sbarcano un giorno, arrivati chissà da dove, e finiscono per rimanerci anche tutta la vita, mimetizzati con gli isolani fino a somigliare a loro, in tutto o quasi. Oppure, più semplicementi, un giorno spariscono così come erano arrivati e riprendono la loro strada”.
a cura di Francesco Ricci
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