Nel titolo e nel sottotitolo dell’ultimo libro di Michele Taddei – “Steppa bianca. Memorie di Albino cavallo di guerra” – il lettore rinviene già alcuni tratti caratterizzanti il volume, pubblicato da Cantagalli. In primo luogo, la sua prossimità al genere romanzesco più che a quello storiografico, in quell’area che è delimitata, grosso modo, tralasciando Cechov, da “I racconti della steppa” di Massimo Gorki e “Gli ultimi della steppa” di Maja Lunde. Ciò naturalmente non esclude una grande acribia da parte dell’autore e uno scrupolo attento nel vagliare le testimonianze e nel raccogliere/interpretare i documenti, come attesta il ricchissimo apparato di note (pagg. 155-207); “Steppa bianca”, però, rimane fondamentalmente, a mio avviso, un’opera d’invenzione, un’opera nella quale il vero e il verosimile si fondono splendidamente e senza alcun attrito.
In secondo luogo, il romanzo è narrato in prima persona e il protagonista è un cavallo (“Memorie di Albino cavallo di guerra”), che rievoca la sua partecipazione nel corso della Seconda guerra mondiale alla cruenta battaglia di Isbuscenskij, il 24 agosto 1942, insieme ai compagni d’arme del Savoia Cavalleria. L’inizio pare immergere il lettore in un clima da favola, dal momento che “Steppa bianca”, dopo un breve prologo, si apre con Albino che si rivolge al suo caro amico, l’asinello Mariolino: “Mio caro Mariolino, stamattina è venuto il veterinario a farmi visita, sono mesi che si prende cura di me”. Ma il rimando ad Esopo e a Fedro, come viene fatto, subito è lasciato alle spalle, poiché né Mariolino né tantomeno Albino rappresentano la mera incarnazione di un vizio o di una virtù, finalizzata a fornire un insegnamento morale ispirato al buon senso comune. Piuttosto raccontare la guerra assumendo il punto di vista di un cavallo – è questa l’operazione che compie Michele Taddei – consente di parlare della vittoria e della sconfitta, della vita e della morte, al tempo stesso con partecipazione e con distacco. Con partecipazione, perché Albino è un maremmano inquadrato nel Savoia Cavalleria: i cavalli e i cavalieri che cadono sotto il fuoco dei nemici (“’Savoia ha caricato!’ lasciando sul campo più di centocinquanta cavalli oltre a trentatré morti e cinquantatré feriti”) sono, come lui, italiani, vale a dire, sono i “suoi” cavalli”, i “suoi” cavalieri. Con distacco, perché Albino non è un essere umano e, di conseguenza, nella lettura da lui fornita dei fatti da lui conosciuti per esperienza diretta, sono assenti quelle scorie di risentimento, di odio, di malevolenza, che negli uomini finiscono spesso con l’alterare il giudizio e disconoscere la verità, facendo sì che la militanza in una parte si converta spesso in interpretazione di parte.
Estremamente significativo, in quest’ottica, è il breve passo che segue: “Le donne russe furono le ultime a sparare ma anche le prime a portare soccorso ai feriti, compresi i nostri”. Questo sentimento di “humanitas”, che si pone al di là di ogni distinzione tra nazioni e tra intese militari, non è meno vero né meno prezioso, e “Steppa bianca” ce lo ricorda, del sentimento di appartenenza a un popolo, a una tradizione, a una bandiera. Quando il pendolo della Storia, infatti, cessa di mantenere l’equilibrio tra l’amore verso la patria e il cosmopolitismo, tra il riconoscimento della necessità di possedere un’etica dei doveri e la difesa appassionata della sfera dei diritti, la vita dell’individuo, la vita degli stati, subiscono un’amputazione. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“La scorsa notte ho sognato di essere di nuovo nella steppa. Sto attendendo l’ordine di ricominciare a correre a perdifiato; sarà non so quante volte che ci danno gli stessi comandi. Al “via” dobbiamo andare, prima al trotto e poi al galoppo, scendere per la balka e risalirla, a gruppi o in formazione serrata. È tutta la mattina che ripetiamo questa inutile corsa a vuoto. Sembra un gioco per loro ma non per noi. Davanti non abbiamo nessuno, solo un immaginario nemico che dobbiamo fingere di attaccare per ripetere l’azione della carica. Ma allora il nemico c’era eccome, superiore in numero e meglio armato. E sì che lo abbiamo affrontato e caricato. Per tutti si avverava il sogno segreto della vita: caricare al grido di guerra “Savoiaaa!”. In quell’urlo disperato tutta l’energia che dal cervello arriva a ogni muscolo del corpo e dà forza alla mente per correre senza paura contro la Morte. “Caricaaat!” ha gridato il capitano e noi compatti al galoppo. Quante volte avevamo provato quell’azione. Eppure, ci dicevano che non eravamo più utili in quella guerra; reduci di un’epoca finita; che la cavalleria non aveva senso ormai”
Michele Taddei, Steppa bianca, Cantagalli, Siena 2021
a cura di Francesco Ricci