Poesia del vicino, poesia da vicino. È questa la prima impressione che si ricava dalla lettura di “Elogio dei venti” di Miretta Pasqui. E poiché tale impressione iniziale trova conferma a ogni successiva rilettura, è possibile parlare di una vera e propria “poetica della prossimità”, la quale conferisce straordinaria coerenza alla raccolta, sebbene le liriche che la compongono si distribuiscano in un arco temporale compreso tra il mese di dicembre del 2008 e il mese di ottobre del 2018. Si tratta di un intero decennio, dunque, e un decennio, oltretutto, estremamente significativo e doloroso, delimitato, come è, a un estremo dalla “grande recessione” (la crisi finanziaria), e all’altro estremo dalla vigilia della diffusione della pandemia di COVID-19: da un “post”, in sostanza, e da un “ante”. Ma cosa significa poesia del vicino (guardando all’oggetto osservato)? E cosa poesia da vicino (guardando al punto di osservazione?).
Per rispondere occorre partire da un’evidenza. Lo sguardo di Miretta Pasqui si contraddistingue per la capacità – quasi una sorta di naturalezza – di posarsi su tutto ciò che è prossimo, che si inscrive all’interno di uno spazio delimitato e delimitabile, riconoscibile, familiare: il resto è programmaticamente tagliato fuori. Uno spazio a comporre il quale concorrono il cielo (mai percepito distante), l’orto, i rami dei tigli, il soffitto della camera da letto, le rose della macchia, le farfalle, i cani lungo la strada, gli oggetti domestici – le care cose domestiche –, le vigne nude e pulite, la donnola ai limiti del bosco, le orchidee selvatiche, i libri, gli indumenti, una rara conchiglia, un telo bianco. Si tratta, in sostanza, della realtà esterna all’io lirico, una realtà, torno a ripetere, consueta e amata. Ciò non sorprende affatto se si tiene conto che è nella cosiddetta linea antinovecentesca, o linea sabiana, che va rinvenuto l’antecedente (e il modello) più immediato della presente silloge poetica, come dimostrano sia la predilezione per la rappresentazione attraverso modi descrittivi e narrativi del reale sia l’impiego di un linguaggio chiaro, di immediata e facile comprensione.
Ora, questa realtà prossima e concreta – realtà del vicino e colta da vicino – tuttavia rimanda a un’ulteriore realtà, che è l’interiorità stessa del poeta. Detto in altri termini, è come se la “casa” esterna al soggetto, sulla quale lo sguardo indugia, casa visibile, tangibile, materica, altro non fosse che il prolungamento (la proiezione) di una “casa” interna al soggetto, casa invisibile, intangibile, impalpabile. L’occorrenza di verbi e sostantivi che ineriscono alle aree semantiche del “sognare”, “ricordare”, “pensare”, “immaginare”, appare quanto mai significativa sotto questo aspetto. Rivela, infatti, che la prima “casa” – il piccolo, caro mondo domestico – deve essere visto come il riflesso della seconda “casa” – quella che accoglie e conserva gli eventi, lieti e dolorosi che siano stati, dell’esistenza di Miretta Pasqui, eventi che sono divenuti, nel frattempo, memorie e risonanze sentimentali. E in questo incessante trascorrere dalla prima alla seconda casa, dal piano dei fatti, delle presenze, delle persone amate e perdute, a quello dei moti dell’animo, risiede l’incanto di questo bellissimo libro. La poesia che segue, intitolata “Solo l’offerta”, apre la raccolta.
“Assomiglia Dina
a quella nuvola rosa
sola e sicura
dopo il grande temporale
pioggia fredda e ventosa.
Ora che il cielo mostra
luminose lame
può incamminarsi certa
verso un’altra casa
e offrire compagnia all’amica.
Sorride. Della vita
di questo correre e perdersi.
Io mi arrabbio.
Lei sorride.
Io non ho ancora imparato.
Il tempo abita i segni
buoni che tracciamo.
Il tempo si annulla
tra i fantasmi del passato
nella ricerca di spiegazioni
nel senso del dovere
nel controllo del bene dell’altro.
Silenziosamente Tommaso
stasera
ha mandato in dono
fichi seccati al sole greco
dolcissimi al palato,
frutti di un orto desiderato”
Miretta Pasqui, Elogio dei venti, extempora, Siena 2019
a cura di Francesco Ricci
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