Come in “Dieci donne” di Marcela Serrano, uno dei libri più belli del nuovo millennio appartenente alla letteratura ispano-americana, anche in “Ali di farfalla” di Nadia Boccacci (nata a Colle di Val d’Elsa nel 1968) lo studio di uno psicoterapeuta (Andrea) diviene lo spazio nel quale l’esistenza informe – come lo è sovente ogni vita finché la si vive – acquista una sua forma, viene, cioè, messa in forma. Traumi, strappi, rimozioni, dilazioni, lapsus, sogni vengono, infatti, recuperati e indagati, mostrandone la loro natura autentica, che è quella di essere altrettante modalità comunicative del linguaggio inconscio. E come nel romanzo di Marcela Serrano, anche in “Ali di farfalla” – un titolo che suggerisce una promessa e un auspicio di rinascita – la voce dolente che si offre all’ascolto del lettore è esclusivamente una voce femminile: quella di Bianca, quella di Dafne. La prima si trova in una condizione di grave depressione, la seconda è ossessionata dal cibo e dal controllo del proprio corpo.
Entrambe hanno alle spalle un passato di grande sofferenza ed entrambe hanno conosciuto sulla loro pelle gli effetti devastanti dell’essere abitate – non semplicemente sfiorate – da Eros, “dolceamara fiera”. L’ingresso di Sandro nella vita di Bianca e di Cesare in quella di Dafne, infatti, comporta una forma di vero e proprio spossessamento di sé, di decentramento dell’Io, di perturbazione dell’identità. Nadia Boccacci è molto brava a cogliere e ripercorrere le fasi che le due donne, al pari di chiunque sia stata vittima dell’amore, si trovano ad attraversare: l’innamoramento, la cristatllizzazione, l’immedesimazione, la consegna di sé all’alterità, l’aspirazione, che sempre illude e delude, a una simbiosi perfetta, nel solco della lettura del Simposio di Platone. E lo fa attraverso una scrittura che, nonostante la materia caotica e ustionante, sempre esposta al rischio di indicibilità per eccesso o per difetto del segno linguistico – e nessuno lo ha detto meglio di Ronald Barthes –, consente di cogliere con limpida chiarezza i tormenti (ma sono molto di più, sono devastazioni, sovvertimenti, terremoti) che Bianca e Dafne hanno vissuto prima di trovare il coraggio e la forza di chiedere un aiuto allo psicoterapeuta, Andrea.
Neppure quest’ultimo, d’altra parte, che pure riesce ad accompagnare con competenza le due donne lungo il percorso della rinascita interiore, impara a vivere l’amore (forse che qualcuno lo impara?), come dimostra la confessione-consuntivo conclusiva, al centro della quale campeggia la parola fine: la fine del matrimonio, la fine della storia d’amore con Margherita. Personalmente, ritengo questo punto di grande interesse per cogliere quello che a me pare essere il significato profondo di “Ali di farfalla”. Se uomo e donna sono destinati a non capirsi mai completamente nel corso di una relazione, poiché tutto, a partire dalla natura del desiderio per arrivare ai bisogni profondi, in loro collide nella costruzione di un amore, tuttavia sono in grado di comprendersi alla perfezione quando si ritrovano accanto alle macerie delle loro rispettive storie andate in mille pezzi, quando la partita, in sostanza, è persa. La maniera di sbagliare, infatti, può essere diversa, le ragioni dell’errore possono essere differenti, ma il disincanto e le ferite che l’amore genera riescono a restituire vita al dialogo tra i due sessi, nel segno della presa di coscienza della comune fragilità e vulnerabilità: Eros è davvero per tutti una “dolceamara fiera”. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale del libro.
“L’avevo intravista nella sala d’aspetto, poco prima che fosse il suo turno, quando ero uscito a prendere un documento dalla segretaria che mi aveva chiamato. Era seduta accanto alla porta, con una borsa capiente appoggiata sulle gambe accavallate. Poi avevo notato il suo passo lento e il suo modo distratto di muoversi, una volta entrata nello studio. Aveva i capelli ondulati e gli occhi verde acqua che mi guardavano incerti. Erano enormi dietro gli occhiali trasparenti: profondi come il mare e infinitamente tristi. Mi disse che si chiamava Bianca e che aveva bisogno di aiuto. Le risposi cercando di tranquillizzarla, facendole le solite domande di routine da prima seduta, mentre mi muovevo in modo cauto e le porgevo moduli da riempire.Cercavo di essere empatico ma distaccato, come d’altra parte impone il mio ruolo. Ma quello sguardo velato, vestito di torpore e sconfitta, mi aveva colpito nel profondo. C’era qualcosa in lei che la rendeva diversa dalle altre. Mi occupavo di psicoterapia da diversi anni, quando la conobbi, per cui ero già entrato in contatto con un ampio spettro di tipologie umane, ma quella donna aveva evidenziato fin da subito il dono sottile di comunicare con un linguaggio non verbale, di raccontarmi un mare infinito di dolore con la forza delle parole mute”.
Nadia Boccacci, Ali di farfalla, Les Flâneurs Edizioni, Bari 2018
a cura di Francesco Ricci