Da quando è sorto il mercato dei prodotti intellettuali, vale a dire dagli inizi del XIX secolo, è stato il pubblico a determinare non solamente il successo o l’insuccesso di un libro – basti pensare alla desolata lettera di Giovanni Verga all’amico Capuana, nella quale riconosceva che i “Malavoglia” hanno fatto “fiasco, pieno e completo” –, ma anche la sua destinazione dal punto di vista dell’età, della cultura, dello status sociale dei lettori. Sotto questo aspetto, le “Fiabe” dei fratelli Grimm costituiscono forse l’esempio più lampante. Rivolte in principio a un pubblico adulto e di condizione borghese – la tipica famiglia “bieder-meier” tedesca, dai gusti sobri e senza fronzoli –, col tempo sono state lette e interpretate come un monumento della letteratura per l’infanzia, che generazioni di genitori hanno recitato ad alta voce ai loro figli e generazioni di nonni ai loro nipoti.
Perché è accaduto ciò? Come è che ha avuto luogo una simile trasformazione? A chiarirlo è ora l’agile saggio di Niccolò Marzi, edito da nuova immagine e intitolato “in bocca al lupo”. Strutturato in tre capitoli (“Adattamento per bambini di due fiabe scelte”, “L’albero di ginepro e altre venti fiabe di paura”, “Grimm 2.0: adattamenti cinematografici, televisivi e nel Paese del Sol Levante”) e corredato da un ricco e interessante materiale iconografico, il libro di Niccolò Marzi mette bene in evidenza come nelle intenzioni dei fratelli Grimm le fiabe, che nella loro genesi rimandano alla notte dei tempi, fossero destinate a un pubblico adulto e istruito.
La semplicità dei racconti e dello stile, però, fecero in modo che essi venissero trasmessi a piccoli e adolescenti, nei riguardi dei quali svolsero tanto una funzione di intrattenimento quanto di educazione, di formazione. Ciò fece sì che gli aspetti più crudi e crudeli contenuti nella prima edizione (1812) delle “Fiabe” venissero progressivamente esclusi, cancellati, addolciti, determinando una distinzione netta tra suddetta edizione e quella definitiva (la settima) del 1856, che insieme a una certa teatralità della struttura vede smarrirsi la componente più sadica, violenta, sanguinaria delle storie, che non risparmiava neppure personaggi come il principe di Biancaneve, il lupo di Cappuccetto Rosso, le sorelle di Cenerentola. Il passo che segue è tratto dalla “Prefazione” dell’opera.
“C’era una volta una famiglia che viveva in un piccolo villaggio della Germania. I genitori avevano nove figli e i primi due si chiamavano Jacob e Wilhelm. Quando il padre morì per un’infezione polmonare, la famiglia fu costretta a trasferirsi in un altro villaggio e i due figli maggiori si impegnarono ardentemente per sostenere la madre e il resto della famiglia dal punto di vista economico. Pertanto, si misero a cercare antiche leggende e miti perduti: si imbatterono in streghe malvagie, tiranni prepotenti e maghi diabolici. I feroci nemici avevano poteri straordinari e sembravano invincibili, ma nonostante ciò i due fratelli riuscirono a sconfiggerli relegandoli alla prigionia scritta di un libro fantastico. E così, dopo anni di peregrinazioni e battaglie, vissero felici e contenti di ciò che più gli piaceva, conquistando l’immortalità. I Grimm hanno conquistato veramente l’immortalità grazie alle loro fiabe; e se ci pensiamo bene queste non erano neanche loro, bensì il frutto di racconti provenienti da chissà quale lontana tradizione. Sì, perché se oggi i bambini entrano in contato con le fiabe grazie agli infiniti adattamenti cinematografici e televisivi, una volta erano i genitori di questi a raccontargliele prima di andare a dormire”.
a cura di Francesco Ricci
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