Una volta il poeta spagnolo Miguel Hernandez ha scritto: “Brinderemo di nuovo a tutto quello che si perde e si trova: la libertà, le catene, la gioia e quell’affetto segreto che ci spinge a cercarci nel mondo intero”. A ricordarlo è Ernesto Sabato, uno dei più grandi scrittori del Novecento, autore di quell’autentico capolavoro che è “Sopra eroi e tombe”. Lo fa all’interno di un libro, “Prima della fine”, nel quale con rara maestria vengono intrecciate le private memorie familiari con gli eventi storici argentini, tra i quali un posto di assoluto rilievo è drammaticamente occupato dalla dittatura militare successiva al golpe del 1976. Nel corso di quei sette maledetti e lunghissimi anni venne sterminata un’intera generazione, che rappresentava – o semplicemente poteva rappresentare, il Potere è sempre sospettoso – una forma di opposizione al governo. Catturati sul posto di lavoro, più spesso nelle loro abitazioni, nel cuore della notte – anche i figli piccoli dovevano assistere a quanto accadeva –, giovani e meno giovani venivano incappucciati, fatti salire in macchina, condotti via, torturati, spesso uccisi, talora gettati in mare. Nessuna pubblica prova di forza, nessuno stadio trasformato in ergastolo o in mattatoio. La lezione cilena era servita. Tutto avveniva nell’ombra, nel silenzio, nella complicità più bieca e più colpevole. La Polizia non vedeva mai niente. La Magistratura non interveniva. L’Esecutivo diceva che tutto era a posto. La Chiesa taceva. Uomini e donne erano stati, avevano respirato sotto questo cielo, avevano studiato, fatto l’amore, messo al mondo dei figli. E un giorno erano spariti. Desaparecidos. Non erano più. Succede. In Argentina è successo, per sette anni di fila. E’ maledettamente difficile “brindare di nuovo”, sia a “quello che si perde”, sia a “quello che si trova”, quando il male è stato troppo, quando ogni misura è stata superata. Però occorre ricordare. A volte è un dovere ricordare. Non perché la Storia insegni qualcosa. La Storia non insegna nulla. Gli orrori si ripetono, perché l’uomo è quello che è. Eppure si deve rinvenire la forza di ricordare, sempre e comunque, per rispetto verso tutti gli innocenti che incontrarono la morte nella loro terra, dove sognavano e meritavano – avrebbero meritato – giorni leggeri e radiosi. Il bellissimo libro di Norma Victoria Berti, “Donne ai tempi dell’oscurità”, è prima di tutto un gesto d’amore nei confronti di chi, durante quel lungo inverno argentino, vide spalancarsi davanti ai propri occhi la porta dell’Inferno. Reclusa per tre anni prima in un centro clandestino di detenzione, poi nel penitenziario di Cordoba, infine nel carcere di Villa Devoto a Buenos Aires, Victoria Berti (che interverrà questa stasera alle ore 17 all’incontro nella Sala Storica della Biblioteca comunale degli Intronati, organizzato da Amnesty International e coordinato da Marta Pisillo e Costanza Massetti) ha raccolto le testimonianze delle sue compagne di prigionia (il dovere di ricordare), restituendo un nome e una storia (Alicia, Carmen, Celeste, Estela, Iris, Marité, Patricia, Ruth) a chi la dittatura militare avrebbe voluto fare precipitare nell’abisso della dimenticanza. Nel brano che segue a parlare è Ruth.:
“Ancora Ruth: – Gli anni di cattività mi avevano separato dal resto del mondo non solo fisicamente, ma anche psicologicamente ed emotivamente. Ritornata nel mio mondo che tante volte avevo rimpianto, scoprii che nel frattempo esso si era svuotato, aveva perduto significato. Come poteva vivere la gente in questo mondo, fare cose tanto banali, ignorare che esistevano campi di concentramento, le carceri… Di nuovo la realtà si divideva tra quella del carcere e quella della libertà. In carcere consideravo quella realtà aberrante e pensavo che la vita vera mi aspettava oltre i muri di cinta e ora, la “vita vera” mi faceva dubitare, mi confondeva, non aveva molto senso. Sarebbe stato necessario che la gente mi interrogasse, che si interessasse a quanto ero stata costretta vivere –. Carmen fu il primo testimone a recuperare la libertà, le fu permesso di lasciare il carcere quando ancora imperversava la violenza della dittatura: il momento della liberazione fu meraviglioso. Le difficoltà vennero dopo. Il clima politico e sociale degli ultimi anni della dittatura era oppressivo, dovemmo sopportare un mondiale di calcio odiosamente strumentalizzato, durante il quale il popolo argentino si comportò in modo indegno”.
a cura di Francesco Ricci
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