Una volta Carl Gustav Jung ha scritto che “la verità del mattino costituisce l’errore della sera”. A cambiare col tempo, infatti, non sono solamente le persone, ma anche le idee che di loro possediamo, i sentimenti che a loro ci legano. E se ciò è vero per l’amicizia e per i rapporti di lavoro e di conoscenza, lo è ancora di più per l’amore. Accade così che ci diventino irriconoscibili, persino estranei, l’uomo e la donna che un giorno ci fecero trascolorare in volto e mancare il respiro. Accade così che il perimetro di una moderna abitazione non ci sembri più un’enorme terrazza con vista sul cielo, ma un’asfittica cella di prigione, dove le ore trascorrono stanche e avvelenate.
Paolo Balestri, ne “L’asincronia del tempo”, mette in scena – impiego di proposito questa espressione perché evidente appare la tecnica teatrale adottata, al punto da poter parlare di un “dramma travestito da romanzo” (è così che anche Alberto Moravia definiva la propria opera in prosa) – non semplicemente la fine di un amore, ma la capacità che esso ha di gettare una nuova luce sulla coppia, tanto da regalare all’uno dei due o ad entrambi la dolente certezza che quella che in anni lontani era sembrata la verità dell’esistenza altro non è che il peggiore errore che sia mai stato compiuto.
Ma Balestri sa bene che anche dinanzi allo stesso evento – ad esempio, innamorarsi, mettere su famiglia, amarsi, dirsi addio – l’uomo e la donna hanno reazioni diverse, perché diverso è lo sguardo che posano su ogni cosa dentro e fuori di loro stessi. Ecco allora che Mario e Licia, i due protagonisti de “L’asincronia del tempo”, sebbene vengano individualmente ben caratterizzati dall’autore, possiedono pure un valore paradigmatico, rappresentando la maniera di agire e di reagire del maschile e del femminile in determinate situazioni. La capacità di ascoltare, il peso dato al sesso, la condivisione, la maniera di rapportarsi ai figli, lo spazio accordato alla carriera, l’importanza degli amici, il desiderio di possesso: è lungo l’elenco dei punti che costituiscono altrettante occasioni per misurare lo scarto esistente tra Mario e Licia, ma anche tra Mario e sua moglie, tra Licia e suo marito, e poi tra Mario e Laura, Licia e Antonio.
Conclusa la lettura de “L’asincronia del tempo”, resta forte l’impressione che ogni vita, come disse una volta Umberto Saba a Elsa Morante, sia veramente una “vita mancata”. Il passo che segue costituisce la prima pagina del romanzo. A parlare (in prima persona) è Mario, poi toccherà a Licia, e le due voci si alterneranno sino al termine, interrotte ogni tanto da alcuni interventi di un narratore onnisciente.
“L’urlo arrivò dalla cucina. “Mariooo…” Quella o prolungata, fastidiosa, quel tono perentorio, irritante…risposi con uno strascicato sììì. “Vai tu domani al colloquio con i professori di Carlo?” Sembrava una domanda. “Domani è un problema per me.” “E per me?” ”Non so dove andare, con chi parlare, non conosco nessuno.” “Lo credo, non sei mai stato a scuola di tuo figlio. Ecco quanto t’interessi a lui.” Gli stessi discorsi di sempre! “Ci vado. In qualche modo farò.” Non era stato sempre così. Quando lei iniziava il Liceo, io ero all’ultimo anno; aveva preso una cotta per me, ma noi grandi non potevamo perdere tempo con quelle bimbette. Poi l’avevo persa di vista. La ritrovai all’Università, io laureando in economia, lei al primo anno. La salvai durante la festa delle Matricole; gli “anziani” l’avevano presa di mira per i soliti scherzi. “Lasciamola stare, c’è di meglio” e ci precipitammo verso un gruppetto di ragazze in minigonna. La incontrai al Bar degli studenti qualche giorno dopo. Mi guardò con un’aria di sfida e la osservai con più attenzione. Era alta quasi quanto me e aveva un paio di gambe che non finivano mai. “L’ho detto per sviare quei maniaci. È il meno che potessi fare” dissi, e mi trovai invischiato in un fidanzamento che non era nei miei programmi. Ma mi ero considerato fortunato ad avere incontrato una ragazza con una solida idea della famiglia e seria”.
A cura di Francesco Ricci