Mi accade spesso di difendere l’importanza e la bellezza del rileggere. Rileggere i libri che amiamo, che fin dal primo incontro ci hanno legato a sé per delle ragioni che spesso è difficile individuare con chiarezza. Non sto parlando di quelli che Rainer Maria Rilke reputava indispensabili e che teneva sempre tra le sue cose, ovunque si trovasse. Quelli sono pochi, pochissimi, nel caso del poeta praghese solamente due: la Bibbia e le opere di Jens Peter Jacobsen.
No, i libri che ho in mente io sono quelli che, una volta letti, riponiamo, sapendo però che si tratta di un semplice arrivederci, non di un addio. Forse è questa la ragione per la quale trovo piacevolissimo l’ultimo lavoro di Paolo Di Paolo, intitolato “Rimembri ancora”. Perché altro non è che un’apologia, che si avvale di uno stile piano e accessibile a tutti, del rileggere – del leggere di nuovo – alcune delle poesie studiate a scuola. Si tratta di poesie appartenenti al canone letterario, presenti nei manuali scolastici del triennio superiore (a volte anche del biennio), spesso mandate a memoria e illuminate, nei punti più oscuri o ambigui, dai contributi interpretativi offerti dalla critica. Dei Sepolcri (Ugo Foscolo), Il Cinque Maggio (Alessandro Manzoni), Davanti San Guido (Giosue Carducci), La Signorina Felicita ovvero la felicità (Guido Gozzano), X agosto (Giovanni Pascoli), Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (Giacomo Leopardi), Soldati (Giuseppe Ungaretti), Spesso il male di vivere ho incontrato (Eugenio Montale): sono questi i testi dei quali Di Paolo indaga la genesi, il significato, la fortuna. Il modo di accostarli, però, non è mai professorale o specialistico. In primo piano, infatti, c’è sempre il legame che essi intrattengono con la vita dell’autore e con la vita del lettore. Di Paolo ad ogni pagina lascia intravedere la sua scarsa simpatia per l’approccio ai testi proprio dei formalisti, che guardano all’opera letteraria come a un oggetto linguistico chiuso e autosufficiente.
Per lui non si tratta di spiegare la relazione che sussiste tra gli elementi che compongono un’opera in versi; a lui sta a cuore dimostrare che niente più della letteratura è in grado di conoscere e di trasmettere quella che con Tzvetan Todorov possiamo chiamare “la realtà dell’esperienza umana”. I grandi scrittori, quando parlano di sé o muovono comunque dall’esame della loro esistenza – come fanno la maggior parte dei poeti antologizzati in “Rimembri ancora” –, infatti, danno voce al sentire e al pensare di tutti gli uomini. Ed è su questa base che avviene l’incontro tra chi scrive e chi legge. Ma mentre il primo è fissato e arrestato nella sua opera (il Manzoni del “Cinque Maggio”, il Pascoli di “X agosto”, l’Ungaretti di “Soldati”), il secondo cresce, muta, si trasforma: di conseguenza lo stesso testo letto a quarant’anni non sarà mai identico a quando lo lesse, per la prima volta, a scuola. È per questo che rileggere equivale sempre a ricordare e a ritrovare una parte di noi perduta o dimenticata. Il passo che segue è tratto dal capitolo intitolato “Per cominciare”.
“Quanto fa sette per otto. L’area del quadrato costruito sull’ipotenusa… Rosa rosae. La fotosintesi clorofilliana. Il complemento di moto a luogo. Il periodo ipotetico. “Silvia, rimembri ancora…”. C’è un modo comune per definire questo piccolo e disordinato elenco: un bagaglio. Anzi, il bagaglio di conoscenze che la scuola ci consegna. Può sembrare un’immagine poco originale, benché tutto sommato precisa, plastica: bagaglio fa pensare a certi zaini stipati all’inverosimile che aspettiamo con ansia sui rulli aeroportuali, o che ci trasciniamo a fatica sulle spalle lungo certi sentieri impervi. A osservarli da fuori, si intuisce la consistenza del carico: le zone morbide, gli spigoli, la sagoma di certi oggetti. Tutto alla rinfusa nello stesso duttile sacco. Come molte delle espressioni che adoperiamo senza farci caso, “bagaglio”, in questo contesto, è una metafora. E “metafora” è un termine che fa parte esso stesso di quel bagaglio: una figura retorica con cui prendiamo confidenza leggendo testi letterari, in particolare poesia. Una similitudine abbreviata, si dice per sbrigarsi. Mi piace tuttavia di più un’immagine che ho colto durante il mio primo viaggio in Grecia: proprio sulla strada del centro di Atene verso l’aeroporto, il pullman è stato affiancato da un camion con la parola “metafora” scritta a grandi lettere sulla fiancata. Niente di creativo, di eccentrico: solo una ditta di traslochi. Metafora, ovvero un trasloco, ‘Metaphorein’, in greco, significa “trasportare”. Ho l’impressione che anche in classe, sarebbe facilissimo spiegare la metafora con questa metafora. Un camion dei traslochi: un concetto che si sposta, un’immagine che trasloca in un’altra”
a cura di Francesco Ricci
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