Grande storia (macrostoria) è un’espressione che si declina al singolare. Piccola storia (microstoria) no. O, meglio, si può impiegare anche al singolare – e infatti la si impiega – ma, così facendo, non le si rende giustizia. La si semplifica, la si banalizza. Piccola storia, a mio parere, dovrebbe essere usata sempre al plurale, dal momento che esiste una storia con la lettera maiuscola (la grande storia), ma non esiste una piccola storia; esistono, piuttosto, tante piccole storie, ciascuna delle quali acquista un significato e un rilievo unicamente se accostata ad altre microstorie. “Col ferro nel pugno e con l’ira nel cuor” di Paolo Leoncini (Siena 1950) è un libro fatto di tante storie, storie di personaggi in larga parte sconosciuti ai lettori e noti unicamente a chi, per ragioni di studio, ha una certa dimestichezza col Casellario politico centrale.
Sono uomini che hanno un nome a distinguerli e una fede politica ad accomunarli. Questa fede politica è l’anarchia che è innalzata da loro fin da subito al rango di missione: mantenerne accesa la fiamma in un contesto cittadino ben preciso – Siena, coi suoi circa 23000 abitanti e il suo basso tenore di vita – e in un momento storico altrettanto determinato – l’ultimo decennio del XIX secolo – il quale, complici gli assassini politici (del presidente francese Carnot nel 1894, di Umberto I re d’Italia nel 1900), fu contrassegnato da durissimi provvedimenti repressivi.
Vero è che la persecuzione degli anarchici appare una costante nella storia italiana e anche senese, la quale, come tale, è presente in ogni sua fase. Basti pensare che nel 1873 il giornale “Il Risveglio”, il cui motto era “la terra è di chi lavora”, venne sequestrato a pochi mesi dalla sua uscita (né avrà miglior sorte “Il Birichino” di Francesco Cellesi) e il tipografo Natale Pucci finì in tribunale, mentre l’anno successivo venne istituita una commissione straordinaria, anche nella città del Palio, con la facoltà di “far perquisire e inviare a domicilio coatto tutti coloro che reputerà perturbatori dell’ordine pubblico”.
Leggere “La rivoluzione vista da vicino” e “Il mito di Garibaldi”, “Gli attentati” e “Lombroso a Siena”, “Il processo” e “Ancora i coatti”, per citare solamente alcuni dei trentadue capitoli in cui è suddiviso “Col ferro nel pugno e con l’ira nel cuor”, significa, perciò, anche ripercorrere le tappe di una lunghissima caccia italiana all’anarchico. Il passo che segue è tratto dalla prefazione curata da Giuliano Catoni.
“’O profughi d’Italia alla ventura / si va senza rimpianti né paura, / nostra patria è ‘l mondo intero, / nostra legge è la libertà / ed un pensier ribelle in cuor ci sta’. Con questi versi si apre l’inno libertario scritto dall’avvocato Pietro Gori e pubblicato qualche mese fa, insieme con i testi di altre canzoni anarchiche, da Francesco Burroni in un libro dal titolo “Canti senese d’osteria raccolti dal vinaio Cafiero” (Siena, Betti, 2018, pp. 126-127). Cafiero Pier, dove l’atteggiamento rivoluzionario del periodo risorgimentale fu uno dei fattori dominanti del movimento libertario”. A Siena è stato il padrone, fino al 1982, di un’osteria di Siena che portava il suo nome, legato a quello di Carlo Cafiero, uno dei più noti anarchici italiani e che, con Errico Malatesta ed Andrea Costa, fondò la Federazione italiana dell’Internazionale dopo il Congresso di Rimini dell’agosto 1872. Nello stesso anno, in aprile, a Siena era nato il Fascio operaio e un rappresentante di esso partecipò alla riunione riminese. Da questa data prende le mosse la storia assai ben documentata che Paolo Leoncini ha scritto sul movimento anarchico senese. Oltre i giornali, le fonti su cui si basa la ricerca sono gli archivi del Gabinetto di Prefettura di Siena e del Casellario politico dell’Archivio centrale dello stato. Come ha scritto George Woodcock, “la tendenza dei movimenti anarchici ad assumere caratteristiche locali è particolarmente evidente in Italia, dove l’atteggiamento rivoluzionario del periodo risorgimentale fu uno dei fattori dominanti del movimento libertario”. A Siena portavoce di tale movimento fu, dal luglio 1873, “Il risveglio”, un settimanale diretto da un giovane tipografo, Natale Pucci, e che aveva come motto “La terra è di chi lavora”. La difficile vita del giornale, ripetutamente incriminato e sequestrato, si chiuse nella primavera del 1877”.
a cura di Francesco Ricci
foto di Gabriele Ruffoli