immagine tratta dal film “La Macchinazione” di David Grieco
“La macchinazione”, l’ultimo film di David Grieco, ha l’indubbio merito di richiamare con forza l’attenzione del pubblico italiano sull’ultimo anno di vita di Pier Paolo Pasolini e sulla sua tragica scomparsa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, presso l’Idroscalo di Ostia. Già il titolo lascia intravedere, neppure troppo velatamente, quale sia l’opinione del regista in merito alla morte dell’intellettuale “corsaro” ed “eretico”.
A uccidere Pasolini non fu un ragazzo di vita, Pino Pelosi, detto Pino la Rana, di anni diciassette, al termine di un litigio scoppiato dopo una prestazione sessuale e dopo un tentativo di violenza da parte dello scrittore.
A uccidere Pasolini non furono neppure dei neofascisti, sebbene in quegli anni in Italia fosse molto facile trovare la morte nel corso di scontri (di rappresaglie) tra gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, al punto che nel 1977 il settimanale tedesco “Der Spiegel” esibiva in copertina, come simbolo del Bel Paese, un piatto di spaghetti con sopra una pistola al posto del sugo di pomodoro.
A uccidere Pasolini, infine, non furono dei ragazzi di vita, ingelositi (e invidiosi) perché uno di loro, magari proprio Pino la Rana, aveva un rapporto privilegiato – quasi una sorta di legame stabile – col ricco scrittore e ciò gli consentiva una disponibilità di denaro che loro neppure si sognavano. No, Pasolini trovò la morte a causa del concorso di molteplici attori: la malavita romana, la mafia, alcuni esponenti democristiani, alcuni settori deviati dello Stato. E una risposta al perché dell’omicidio può essere rinvenuta – questa la tesi di Grieco – se consideriamo che in quel periodo Pasolini stava lavorando alla stesura di “Petrolio”, voluminoso romanzo-saggio, nel quale, tra le altre cose, parlava anche dell’Italia del malaffare, dei servizi segreti deviati, della strategia della tensione, dell’Eni e del passaggio dalla presidenza di Enrico Mattei a quella di Eugenio Cefis, della P2, di quella “razza padrona”, in sostanza, che ha sempre mantenuto nelle sue mani le leve del potere, manovrando da dietro le quinte. Pasolini, insomma, venne ucciso non perché intellettuale scomodo, libero da condizionamenti di sorta, senza padroni (senza partiti alle spalle) e, perciò, senza protezione; piuttosto, se venne massacrato, fu perché aveva guadagnato sul campo una tale autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica (meno presso alcuni colleghi rancorosi) che anche ciò che poteva apparire, in un primo momento, incredibile – i fatti avrebbero poi dimostrato che era vero – se scritto o detto da lui veniva ascoltato, meditato, fatto proprio da chi viveva al di fuori del Palazzo, dei suoi privilegi, delle sue miserie. Quello che segue è il capitolo iniziale del libro che Carlo Lucarelli ha di recente dedicato proprio alla morte di Pasolini, l’ennesimo “segreto italiano”, dove vengono smontati i tanti depistaggi e le tante bugie su quanto accaduto nella notte tra l’1 e il 2 novembre presso l’Idroscalo di Ostia..
“Nel corso della mia vita mi è capitato di incontrare Pier Paolo Pasolini parecchi volte. Anche se mai di persona. Ovvio, è una cosa che potrei dire di tanti altri scrittori per me importanti e significativi, molti dei quali erano già morti prima che nascessero i miei genitori e pure i genitori dei miei genitori, ma per P.P.P. è diverso. E’ come se la sua faccia, la sua magrezza, ce le avessi avute davanti da sempre, prima di sapere come era fatto, perché mi è sempre sembrato che le sue parole avessero una fisicità vera, di uno che stava lì davanti, a dirle con la voce, la sua sola voce. Mi è successo ancora soltanto una volta, con un altro scrittore – Giorgio Scerbanenco – che guarda un po’ aveva anche lui una sua faccia e una sua particolare magrezza. Per questo parlo di incontri come se lo avessi fisicamente conosciuto. Anche se mai di persona. Sono sempre stati incontri veloci ma determinanti, più frequenti di quanto allora mi rendessi conto, e ogni volta mi hanno lasciato qualcosa di cui spesso, al momento, non mi sono accorto, ma che ho compreso dopo. Radici. Di quelle che se ne stanno sotto le foglie e le percepisci concretamente solo quando ci inciampi. La prima volta che ho incontrato P.P.P. è stato nel 1973, in estate. Parte della mia famiglia aveva una casa a Mordano, un paese che si trova esattamente sul trattino tra l’Emilia e la Romagna, e succedeva che nei mesi estivi io e mio fratello andavamo là con nostra madre. Poi abbiamo finito col viverci stabilmente – e io tuttora ci abito – ma allora era un’avventura saltuaria quella di andare a Mordano, in campagna. C’era un sacco di roba, in quella casa che sembrava un museo, o meglio: il ripostiglio di un museo. Prima che venisse ristrutturata e riordinata potevi aprire una porta e trovare una camera da letto con il motore di una 500 smontato in mezzo alla stanza, una pila di libri antichi sul materasso, l’elica di un aeroplano appoggiata al muro, cassette di frutta piene di pezzi di fucili da caccia e un cassettone traboccante di chiavi, medaglie romane e occhiali rotti”.
Carlo Lucarelli, PPP. Pasolini, un segreto italiano, Milano, Rizzoli, 2015
a cura di Francesco Ricci