Saga familiare, spaccato sociale dell’Italia nel Ventennio, romanzo di formazione. Sono questi i territori letterari che Piero Fabbrini costeggia nella sua convincente opera d’esordio, “Un’altra gioventù” (nuova immagine editrice). Prendendo le mosse da alcuni documenti privati (scritti e orali), l’autore narra le vicende che vedono coinvolte alcune famiglie del Valdarno nel periodo compreso, grosso modo, tra i primi anni del secolo e la conclusione del secondo conflitto mondiale. Caporetto, il biennio rosso, la marcia su Roma, il delitto Matteotti, il consolidamento del regime fascista, la guerra d’Etiopia, la guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale, l’uccisione di Mussolini: ogni evento storico è sempre colto e mostrato nella ricaduta che ha sul modo di pensare e di vivere di una piccola comunità rurale – alla quale appartengono anche i nonni dello scrittore – che si sta aprendo lentamente alla modernità.
Questa comunità da Fabbrini viene connotata fortemente tanto sul piano linguistico quanto su quello ideologico-sentimentale. Sul piano linguistico, attraverso l’ampio ricorso a dialoghi veloci e impastati di oralità, che riproducono la parlata della zona di Montevarchi: “Gnamo a ‘asa babbo che mi voglio leva’ la divisa, mi so belle stufa’o di tutto questo”. Sul piano ideologico-sentimentale, invece, la comunità di uomini e di donne in questione viene descritta nel maturare della consapevolezza dello scarto esistente tra l’immagine dell’Italia offerta dalla propaganda di regime e la cruda, drammatica realtà dei fatti. D’altra parte, già il titolo del romanzo suona splendidamente ambivalente.
“Un’altra gioventù”, infatti, si presta a una duplice interpretazione. Da un lato, Amleto, Arturo, Pietro, Marino, Vincenzinu, appaiono veramente ai nostri occhi “un’altra gioventù”, lontanissima da quella odierna sia per i principi che ne orientano l’esistenza (Dio, Patria, Famiglia, costituiscono per loro ancora un solido sistema di valori di riferimento) sia per il peso che la tradizione e il senso della continuità delle generazioni rivestono nel determinarne le scelte e i gesti: tutto viene fatto nel segno e all’insegna della ripetizione.
Dall’altro, la diversità e l’alterità richiamate nel titolo alludono allo iato che poco alla volta si apre tra le aspettative che molti dei personaggi nutrono e l’esistenza che si trovano a vivere. La guerra d’Etiopia prima, l’ingresso in guerra dell’Italia poi, infatti, infrangono progetti e vanificano intenzioni, rendendo la loro giovinezza (è questa la seconda accezione di significato della parola “gioventù”) molto lontana da quella che avevano sognato. In quest’ottica, il deperimento e l’invecchiamento del corpo dei reduci dal fronte, che Fabbrini descrive sempre con grandissima cura, suggeriscono anche un prosciugamento dell’entusiasmo e delle illusioni che, in un giorno che pare lontano ormai secoli, riscaldarono il cuore, ammantando di bellezza l’esistenza (“Invece sulla soglia c’era uno sconosciuto, magro e con la faccia abbronzata, con pochi capelli e un reticolo di rughe intorno agli occhi”).
Non solo. Ma sono proprio tali tragici eventi – e questo vale sia per i più giovani che per gli uomini maturi – a rimettere in discussioni anche convinzioni che parevano granitiche, inattaccabili. Da questo punto di vista, la guerra è dunque pensata e rappresentata come una radicale esperienza esistenziale – Karl Jaspers avrebbe parlato di situazione-limite –, la quale conduce a prendere coscienza, forse per la prima volta in maniera così nitida, degli elementi costitutivi della natura umana (la fragilità, la caducità, lo sradicamento, la fraternità, la solidarietà), che risultano ben lontani dal mito della forza, della potenza, della vittoria, cari a Mussolini e al fascismo. La pagina che segue è tratta dal capitolo iniziale.
“La giornata era fredda ma soleggiata, un inizio inverno come piaceva a Muzio e poi era domenica mattina. Il suo tram faceva velocemente il giro del paese, raccogliendo pochi passeggeri, non come gli altri giorni con la “carrozza” piena di gente che si recava sul posto di lavoro e le fermate più lunghe per far salire tutti. La domenica in meno di 15 minuti poteva fare il giro completo, fermate comprese, poi avere tre minuti interi di sosta, poteva scendere dal suo posto di autista, arrivare fino a casa che distava pochi metri dal capolinea, salire velocemente le scale e adempiere al rito domenicale che gli piaceva tanto: il sospirato arrosto girato. La mattina presto, prima di iniziare il lavoro aveva preparato lo spiedo infilzando la carne e gli uccellini, più tardi, una volta acceso il fuoco, ogni volta che si fermava al capolinea saliva di corsa in casa per dare la carica con la manovella al girarrosto che aveva una durata di oltre 20 minuti, un tempo che la domenica era più che sufficiente, fra una sosta e l’altra, per ridare la carica e non far fermare il girarrosto. Gli altri giorni della settimana non avrebbe fatto in tempo a tornare a girare la carne. In ogni caso non avrebbe certo potuto permettersi l’arrosto due o tre volte la settimana, sarebbe stata roba da ricchi, e lui certo ricco non lo era. Il suo stipendio da autista di tram era buono o perlomeno lui lo considerava tale: “ce n’avesse la gente le lire che porto a ‘asa io” pensava spesso, ma per la carne tutti i giorni ci voleva altro!”.
Piero Fabbrini, Un’altra gioventù, nuova immagine, Siena 2020
a cura di Francesco Ricci