Quelli che seguono sono alcuni dei testi che sono stati letti stamattina, assieme ad altri componimenti originali, dagli studenti dell’Istituto Piccolomini di Siena. La Cappella di Piazza, le Logge del Papa, le Logge della Mercanzia, le Logge dell’Indipendenza, il Portico del Piccolomini sono stati gli ambienti dove la parola e la musica hanno mantenuto vivo il ricordo – ma come dare voce e suono all’indicibile? – della Shoah, lo sterminio di circa 6 milioni di Ebrei che ebbe luogo in Europa tra il 1939 e il 1945.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le SS intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le SS sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. Il LagerKapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Le SS lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. “Viva la libertà!” gridarono gli adulti. Il piccolo, lui, taceva. “Dov’è il Buon Dio? Dov’è?” domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava. “Scopritevi!” urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. “Copritevi!” Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?” E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…” Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere. (Elie Wiesel, La notte, 1958)
Tuttavia, questo non può bastare, poiché di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, venga meno alla regola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza e intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato: durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. I miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini: le azioni di quei giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente sconosciuto, accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in gradi di far altro, condividere la sorte di Israele. Anche di costoro parlerò. Ma Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico – ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo; un Dio che nell’urto con gli eventi mondani rivolti contro di lui, non ha reagito – come noi ebrei recitiamo ogni anno ricordando l’esodo dall’Egitto – bensì continuato con muta perseveranza la realizzazione del suo fine incompiuto. (Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 1987)
Vorrei introdurre questo tema con la citazione di un breve testo. D’autore. Dice: “Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo piò leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach o Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz” Sono parole di George Steiner, “un umanista strenuo che in ogni sua pagina denuncia la fine dell’umanesimo”. Compaiono nella Prefazione al suo Linguaggio e silenzio, ed evocano il vero punto di rottura tra il prima e il (nostro) dopo (“Noi veniamo dopo”): Auschwitz. Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l’irruzione massificata del disumano nell’umano (irruzione nel pensiero, non solo nella storia, dove non sarebbe un novum). Il disumano teorizzato e programmato razionalmente (mediante quella stessa ratio che nella visione classica avrebbe dovuto fondare la philantropia). Per la verità già la Prima guerra mondiale, “l’inutile massacro”, l’aveva anticipata, quell’irruzione, con tutta la violenza concentrata che una guerra totale può produrre. Con Auschwitz – per questo lo assimiliamo al male assoluto – non solo il disumano si afferma come protagonista esclusivo ma viene a occupare il nucleo centrale dell’umano. S’installa in esso come sua autentica essenza: come mostruosa metamorfosi dell’Humanitas (a Elie Wiesel che si chiedeva “Ad Auschwitz dov’era Dio?” Primo Levi replicava “Dov’era l’uomo?”. (Marco Revelli, Umano Inumano Postumano, 2020)
Siamo vicini, Signore, / vicini e afferrabili. // Già afferrati, Signore, / l’uno nelle grinfie dell’altro, come fosse / il corpo di ognuno di noi / il tuo corpo, Signore. // Prega, Signore, / accanto a noi prega / siamo vicini. // A sghimbescio andavamo / andavamo per chinarci / verso conca e cratere. //All’abbeveratoio andavamo, Signore. // Era sangue, era / ciò che tu hai sparso, Signore. // Riluceva. // E ci mandava la tua immagine negli occhi, Signore. / Occhi e bocca così aperti e vuoti, Signore. // Noi abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore. // Prega, Signore / siamo vicini. (Paul Celan, Tenebrae, 1959)
Adesso io sono separata dai miei genitori e non li posso raggiungere, anche se si trovano a due ore di viaggio da qui: ma so esattamente in che casa abitano, so che non patiscono la fame e che sono circondati da molte persone ben disposte verso di loro. E anche loro sanno dove sono io. Ma potrà venire un tempo in cui non saprò più niente, e i miei genitori saranno deportati e moriranno miseramente chissà dove: so che può succedere. Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. E secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure, non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure, trovo questa vita bellissima e ricca di significato. Ogni minuto. (Etty Hillesum, Diario 1941-1943)
Francesco Ricci
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