Leonardo Sciascia è lo scrittore italiano del secondo Novecento che meglio ha dimostrato come si possa fare letteratura, intendo buona letteratura, sovrapponendo, anziché separando, il piano della realtà e il piano della finzione. Infatti in lui, già a partire dal romanzo d’esordio, “Le parrocchie di Regalpetra”, pubblicato nel 1956, la scrittura d’invenzione si viene a innestare sopra un’attenta e continua ricerca documentaristica, sia che il tema di fondo dell’opera sia costituito dalla scuola o dalla mafia o dal sistema di potere democristiano. Fedele in questo alla lezione di Sciascia e di Manzoni (non a caso molto apprezzato da Sciascia), tanto il Manzoni dei “Promessi sposi” quanto, e forse più, il Manzoni della “Storia della colonna infame”, Erminio Jacona, siciliano di nascita, racconta due storie, la prima collocata temporalmente nel 1788, la seconda nel 1814, che presentano come elementi comuni l’ambientazione – entrambe si svolgono a Siena – e il tema – che è quello del matrimonio clandestino, che aveva già trovato consacrazione lettereraria nell’ottavo capitolo del capolavoro manzoniano, la cosiddetta “notte degli imbrogli”. E se teniamo conto che Manzoni soggiornò a Firenze per alcuni mesi nel 1827, alloggiando nell’albergo delle Quattro Nazioni, sul lungarno Corsini, e che non può affatto escludersi che a quel tempo fosse ancora vivo il ricordo di quanto accaduto nella vicina Siena solamente pochi decenni prima, ecco allora che il libro di Erminio Jacone, di cui si riporta l’inizio del capitolo intitolato “Al caffé di Carlino”, appare rivestire un grande interesse non solamente per il semplice lettore, ma anche per lo storico della letteratura:
“Venendo su per via dei Banchi, sulla destra, c’è una piazza, con la parrocchiale antichissima di San Cristoforo, già chiesa padronale della nobilissima famiglia Tolomei, dove, avanti la costruzione della sala del Consiglio, nel Medioevo, si adunava spesse volte la magistratura cittadina. Sulla medesima Piazza troneggia sopra una colonna una lupa di bronzo che pare occhieggiare il caffé di Carlo Pineschi, detto Carlino, aperto sull’angolo del vicolo del Lucherino (oggi vicolo di B. Pier Pettinaio) di fronte al vicolo della Regina (oggi vicolo Rinuccini). Tra gennaio e marzo di quel 1787 si contarono alcune feste religiose intrise anche di un certo sapore profano. Il 17 gennaio, ricorrenza di Sant’Antonio Abate, furono benedetti i cavalli nelle chiese di Sant’Antonio in Santa Caterina, San Salvadore, San Martino e San Donato, con tante festicciole che molti consideravano bottegucce dei curati per far quattrini ma che servivano a certi nobili per esternare opulenza. Quel giorno si videro la carrozza di casa Sansedoni con la muta a sei cavalli e il cocchiere romano che giocava bene la frusta e la carrozza di casa Bianchi, a quattro cavalli, guidati da Lorenzo Turillazzi. Il 9 febbraio festa con indulgenza nella chiesa delle monache di Santa Petronilla, fuori Porta Camollia, dove si tocca il popolo dei fedeli con un dente di detta santa, e all’abbadia di san Michele Arcangelo dei padri Carmelitani scalzi, situata su per la costa di Vallerozzi”.
a cura di Francesco Ricci
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