Un premio letterario giunto alla sua diciottesima edizione, venticinque vincitori (la premiazione si terrà a Lucca il 5 e il 6 ottobre), un volume, edito da Castelvecchi e curato da Demetrio Brandi, che raccoglie i racconti. Fa piacere, ma non sorprende il sottoscritto, che tra gli autori premiati ci sia anche Silvia Schiavo, col suo “Non poterne fare a meno”.

Silvia Schiavo (Siena, 1978), infatti, si era già imposta all’attenzione del pubblico col delicato romanzo “I cieli visti dal tempio”, pubblicato da Effigi nel 2018, dove la vita della protagonista Anna restituiva al lettore l’immagine di ogni vita, la quale, come scrisse Umberto Saba, “invano / non si vive, in cui tutto / non torna, e tutto / si dà la mano”. Stavolta Silvia Schiavo, dovendo confrontarsi con la misura breve del racconto – che, come ci ricorda Edgar Allan Poe, deve poter essere letto in una sola volta – concentra la sua attenzione su un solo aspetto dell’esistenza, che non interessa né tantomeno coinvolge tutti gli uomini.

Di cosa si tratta? La risposta a questa domanda è sapientemente a lungo elusa dall’autrice, e compare solamente alla fine. Fino a quel momento, il lettore sa che si tratta di una passione che unisce due persone (i due protagonisti), che non sempre è possibile coltivare, che si pone spesso in conflitto con la quotidianità dominata dal lavoro e dagli impegni familiari, che può tacere, ritrarsi, nascondersi, ma che non viene mai meno. Questa passione è la passione della scrittura, la quale non sceglie né l’ora né il luogo in cui venire coltivata (Alberto Moravia scriveva al mattino, Elsa Morante al pomeriggio), ma, se autentica e intima vocazione, esige di essere ascoltata e praticata.

Altrimenti, chi nasce alla scrittura è destinato a trascorrere una vita a metà, senza né colore né gioia. Lo scrivere, infatti, per alcune persone è un vero e proprio bisogno dell’anima che, se non viene soddisfatto, toglie valore e peso a tutto il resto. Il passo che segue costituisce l’incipit di “Non poterne fare a meno”.             

“Le prime volte era appena un ragazzino: i suoi amici non erano tipi da voler sperimentare certe cose, così lo faceva da solo. A casa si chiudeva in camera, a volte si nascondeva giù in cantina, dove nessuno lo avrebbe cercato o disturbato. Suo padre non avrebbe capito, gli avrebbe dato del debole, gli avrebbe detto “Se sei un uomo vieni con me a lavorare e ad affrontare il mondo vero!”. A quei tempi lo tirava su dopo un brutto voto, o una presa in giro, o gli impediva di sentire le discussioni tra i suoi, che lo stancavano e deludevano talmente tanto. Abitudine, hobby, vizio…? A lui piaceva considerarla una passione. Si sentiva capace, potente, il re di quel mondo, poteva scegliere come, quando…”.  

a cura di Francesco Ricci

Francesco Laezza

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