Il libro della Natura e il libro dell’uomo parlano lo stesso linguaggio, almeno per chi abbia appreso l’arte di non fermarsi al semplice segno, e di conseguenza sappia, partendo da esso, percorrere entusiasta il cammino, affidato ora all’intuizione, ora all’intelletto, che lo conduce dentro i territori della verità. Gli uomini dell’Alto Medioevo lo sapevano bene. Quelli del Basso Medioevo non l’hanno mai messo in dubbio né lo hanno mai dimenticato. Stile romanico e stile gotico, simbolo e allegoria: si è sempre, in ogni caso, al di là del significato letterale, al di là di ciò che si offre con immediatezza alla vista e all’udito; si è sempre in viaggio alla ricerca di ciò che è essenziale, di ciò che è veramente importante, oltre il fenomenico, oltre ciò che è apparenza e, forse, sogno. Sotto questo aspetto, la bellissima raccolta di poesie di Ranieri Carli, “Diario di Fiornicchiaia impreziosita da undici acquerelli di Vittorio Fosi e prefata ottimamente da Alessandro Fo, sa un po’ di bestiario, sa un po’ di erbario, sa un po’ di lapidario. Lo sguardo dell’autore, infatti, si posa su ciò che vive e respira sotto il cielo della campagna senese, con un’evidentissima predilezione per quanto vi è di più minuto, di più delicato, talvolta di più fragile. L’eco del cuculo, il filo d’erba, l’improvvisa folata di vento, la lucertola sul muro, la sua preda, il passero smemorato, la rondine, le lucciole che rischiarano il buio: anche loro sono, al pari del poeta, al pari di ogni altro uomo, “creature della vita e del dolore”, e di quella vita, di quel dolore ci parlano.
Ma, ancor di più, in quanto creature lasciano intravedere, se non il significato, un possibile significato della nostra creaturalità, vale a dire del nostro essere fragili, effimeri, costantemente esposti alla perdita – a partire da quella dei nostri affetti più cari – e al rimpianto. A salvarci dall’angoscia e dalla sofferenza, può essere soltanto la consapevolezza di avere fatto la nostra parte, nell’ordine universale, con dignità e onestà, con rispetto e dedizione, per noi stessi, per le persone che abbiamo incrociato e che ci sono state compagne, per quella aspirazione profonda dentro di noi – vocazione, destino, demone – che non abbiamo mai tradito. La poesia che segue, la ventisettesima, e dunque la penultima, esprime bene la sostanziale affinità che unisce l’esistenza del singolo e la Natura, la quale ci svela, coi suoi piccoli eventi, come non nella permanenza, ma nel trascorrere e nel divenire consista la verità del nostro essere-nel-mondo e come il compito dell’artista sia quello di trarre in salvo (dall’oblio), con la sua opera, ciò che un giorno fu e che poi è svanito, è passato, è morto.
Nelle lunghezze di questi pomeriggi
snervanti di dolcezze
dove le cicale sono fuggite
dove i grilli a sera?
Il torpido silenzio
è la misura
del settembre trasognato
che trascolora i boschi
e s’arrossa
sulla mia siepe ispida.
Nell’opalescente migrare
verso l’oblio della terra
muore anche l’ombra
con dolcezza.
a cura di Francesco Ricci
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