Cinquant’anni sono un tempo sufficientemente lungo per operare un consuntivo. Non certo con l’ambizione di comprendere nella sua interezza un avvenimento, il lungo Sessantotto italiano, che ha segnato un autentico spartiacque nella maniera di vivere e di pensare, questo no. Ma almeno con l’intento di chiarire ciò che allora, per un eccesso di coinvolgimento emotivo o un eccesso di distanza, apparve per molti aspetti incomprensibile.
Infatti, ne uscì a tal punto trasformato, anche nel nostro Paese, il volto della famiglia, della scuola, della società nel suo complesso, che alcune categorie interpretative, valide in passato e per il passato, risultarono del tutto inadeguate a cogliere il senso non soltanto di certe dinamiche storiche, ma anche di alcune scelte individuali. Sicuramente tra il 1968 e il 1977 la grande storia e la piccola storia, la storia collettiva (history) e la storia privata (story), si intrecciarono, si sovrapposero, si condizionarono a vicenda come poche altre volte era accaduto in Italia. E questo anche perché i protagonisti di quella stagione furono i giovani, con il loro idealismo e il loro radicalismo, con la loro passione, la loro forza, la loro fantasia e, soprattutto, con la convinzione che la politica militante non fosse una tra le tante possibilità di impiegare il proprio tempo libero, bensì costituisse la principale ragione di vita, finendo così col gettare un ponte tra la microstoria e la macrostoria.
L’ultimo romanzo di Riccardo Gambelli, edito dal “Leccio” e intitolato “Il lisiantus bianco”, ha il grande merito di evidenziare proprio lo strettissimo legame esistente tra gli eventi destinati col tempo a farsi cronaca, storia, saggio – e che, specie in questo cinquantesimo anniversario del Sessantotto, riempiono gli scaffali delle librerie –, e i fatti che, invece, sono scivolati via come pioggia sulla pelle, sono stati scordati, tranne che da coloro che ne furono partecipi o testimoni, inghiottiti al pari delle amicizie, degli amori, delle fedeltà e dei tradimenti, dei sogni e degli errori, che scandirono le giornate di lotta e di vita di tanti giovani. Partendo da un episodio realmente accaduto, l’uccisione nel febbraio 1975 di un giovane militante del Fuan, Mikis Mantakas, negli scontri tra “rossi” e neri” per le strade di Roma, l’autore ricostruisce e restituisce benissimo l’atmosfera che si respirava negli anni a cavallo tra il maggio francese e la rivolta creativa del 1977. Lo fa assumendo uno sguardo retrospettivo, quando quella stagione ormai si è conclusa e quindi non può più fare male, quando espressioni come “anni di piombo” e “strategia della tensione” appaiono distanti quanto le stelle del cielo. Il passo che segue è tratto dal primo capitolo e mostra il protagonista del romanzo, Bruno, che si trova all’Isola d’Elba.
Sono trascorsi più di trent’anni – siamo, infatti, con l’inizio del romanzo nell’agosto del 2006 – da quando lui, nel frattempo divenuto psichiatra, vide un fiume di sangue uscire dalla testa del suo amico, Mirko, raggiunto da un proiettile calibro 6,65, nei disordini scoppiati tra Piazza Risorgimento e Via Ottaviano nelle stesse ore nelle quali, presso il tribunale di Palazzo Clodio, veniva celebrato il processo contro tre militanti della sinistra extraparlamentare, accusati di avere appiccato le fiamme all’appartamento di Mario Mattei, segretario di una sezione del MSI.
“Era una meravigliosa, immensa, albicocca arancione che stava immergendosi nel mare. Un tramonto che lo ipnotizzava, rendendolo sereno, felice e consapevole che la sua giornata di lavoro si apprestava a coricarsi, proprio come avrebbe fatto lui da lì a qualche ora. Adorava i tramonti estivi, attendendo fremente l’appuntamento, immancabile, che lo avrebbe visto spettatore dell’ennesimo spettacolo della natura. Anche quel pomeriggio Bruno si era seduto al suo solito tavolino, sorseggiando un gustoso succo di pomodoro, accompagnato da irresistibili arachidi. Aveva scelto l’Isola d’Elba per gli ultimi anni della sua professione, dopo il trasferimento dal Centro di Salute Mentale di Novi Ligure. Non faceva più caso ai suoi continui traslochi da case più o meno grandi e da luoghi più o meno affascinanti. Ma l’Isola d’Elba lo aveva legato a sé in maniera assoluta, e non lo avrebbe più lasciato andare. Aveva deciso di concludere la sua attività su quelle terre ricche di verde, bagnate da uno splendido mare azzurro, fiore all’occhiello dell’arcipelago toscano. Anche Napoleone aveva amato quella magica isola, costretto a trascorrere glia anni seguenti alla caduta del suo potere, della sua luce che splendeva in tutto il vecchio continente. Al contrario del grande condottiero, Bruno si era legato all’isola volontariamente, persuaso che non l’avrebbe più abbandonata: un esilio consapevole, realizzato, che lo faceva star bene. Prestava servizio presso il reparto di psichiatria di Portoferraio, il capoluogo e cuore pulsante della briosa isola”.
Riccardo Gambelli, Il lisiantus bianco, il Leccio, Siena 2018
a cura di Francesco Ricci