Riccardo Intruglio, Alveare

Riccardo Intruglio, Alveare

Silenzio è parola che si declina al plurale. Esiste, infatti, il silenzio degli spazi infiniti (Pascal), esiste il silenzio della notte che avvolge le cime dei monti e le voragini (Alcmane), esiste il silenzio che, come una lama d’acciaio, cala improvviso tra le persone (si pensi all’ultimo incontro tra Maria Arnoux e Federico Moreau ne “L’educazione sentimentale” di Flaubert: “Tutti e due non trovavano più niente da dirsi.

C’è un momento, nelle separazioni, in cui la persona amata non è già più con noi”), esiste il silenzio del nostro incessante morire quotidiano (Borges). Ed esiste il silenzio delle città. Silenzio parlante, silenzio nel quale i sensi di chi le abita (e le ama), come d’incanto, riescono a catturare le voci e le correnti che attraversano strade, edifici, giardini, mercati. Il vento e il sole sulla pelle, gli odori e i profumi delle botteghe e della campagna circostante, la pietra della facciata di un palazzo che pare vibrare sotto le dita, i giochi di luce e i vuoti d’ombra che si rincorrono, confondendo sguardi e sicurezze: sono segni, sono segni di un dialogo che unicamente l’abitudine e la superficialità c’impediscono di cogliere o che noi, riduttivamente, facciamo scadere a livello di mera impressione sensoriale.

“Alveare”, la lunga lirica del senese Riccardo Intruglio, non deve essere letta semplicemente come un gesto d’amore verso la propria città. Piuttosto, essa costituisce la testimonianza di un rapporto profondo, viscerale, fisico con Siena. Non è certamente un caso che i primi due verbi inerenti all’area semantica del “parlare” compaiano soltanto poco prima della conclusione. Perché Riccardo sa bene che, nel momento in cui la parola tace (la propria, quella della città), sono ben desti, sono all’opera – massima è la loro ricettività – l’olfatto, il gusto, il tatto, la vista. La parola viene dopo, la parola è un dopo. La città al poeta, disteso col corpo nel Campo, ha già confidato la sua viva e protettrice presenza: è “matria” che accoglie e che riscalda, è “societas” (da qui il riferimento nel titolo al mondo delle api) che colloca – deve saper collocare – la parte all’interno del tutto.

Questa mattina mi sono svegliato con una collina sulla schiena,

le braccia protese fra due muraglie di lunghe case,

dove i mercanti

condivano le spezie

Non un alito di vento,

non una polvere azzurrina sparsa dal nuovo giorno

nel labirinto della terra

Un piccolo fiumiciattolo di luce, un mattone amato

Tra le grate un fumo e quell’odore che sento da sempre

E che cammino e lo sento

Nel solito punto Quando la strada addenta la Piazza.

La verbena, protesa come le canne di bambù tra le

frasche

E la salsedine del mare

È qua, la sento affiorare tra i palmi

Delle mie mani

E profuma d’erba lasciata a coprire uno scrigno d’oro

Che prima era legno, e nel legno era il pane

E mi sono rinchiuso nell’ampolla della Piazza del

Campo,

io cerco la perla, io vedo la conchiglia

E sdraiato, il pizzicore sulla nuca,

i cristalli di calore a raggi e sfere sul Palazzo, tra le

ombre,

nella Torre, e ottone e fori vedo respirare tra la pietra…

Respirano! Dicono qualcosa

Cercando di articolare un antico canto, non lo conosco

È il sottofondo

Ma respirano, e parlano, c’è un’anima e la sento

E ogni mio atomo si orienta, inverte il suo

ragionamento,

punta dritto al turbinio del cielo,

che annuncia qualcosa, oh quant’è importante,

chino fra i merli, si insinua e la pietra intorno canta

Scalini di sassi, la conchiglia a fette tutta canta

Ed ecco la teoria dell’acqua nella vecchia Fonte,

rivela il grande mistero

Si schiudono pensieri perduti intorno alle scarpe,

dalle ferite della terra sale la risposta, quella che cerco

Improvvisamente però

Tutto tace

E l’alveare torna a custodire

Geloso

Le sue api, il suo miele.

Io me ne sto qui buttato,

ferito

appagato

quando il mondo si pronuncia

c’è un’illusione

una speranza

agganciata alle cose.

 

Riccardo Intruglio

 

foto di Francesco Laezza