Il gioco del calcio è il gioco più bello del mondo. O forse no. Forse è solamente il più seguito, il più praticato, il più celebrato da scrittori e poeti (Saba, Sereni, Soriano, Celati). Di certo è una splendida metafora dell’esistenza, una delle più felici, una delle più calzanti. Gli allenamenti settimanali, la preparazione a tavolino delle partite, i novanta minuti della sfida – a volte diventano centoventi, proprio quando meno te lo aspetti, proprio quando già ti vedevi nel tunnel che conduce agli spogliatoi – la lotteria dei calci di rigore, il peso degli errori (nostri, degli avversari, dell’arbitro, dell’allenatore), la bellezza inarrivabile di alcune giocate, il ruolo svolto dalla buona e dalla cattiva sorte, la gioia e la delusione regalate al pubblico. Nessun dubbio, il gioco del calcio è come la vita, anzi, è la vita, per quell’equilibrio che richiede tra testa e cuore, calcolo e passione, talento e fortuna, umiltà e presunzione, disciplina e anarchia.
Certo, ci sono anche alcuni aspetti di questo sport che non ci piacciono, in particolare tutto ciò che ha a che fare con i soldi, con gli ingaggi, con la violenza dentro e fuori gli stadi, con le scommesse illecite, con la sudditanza psicologica di parte degli arbitri. Ma forse che della vita ci piace tutto, ma proprio tutto? Forse non c’è qualcosa che vorremmo cambiare, pur sapendo che ogni mutamento non potrà essere che tardivo e, spesso, deludente? Sì il calcio è come la nostra esistenza, imprevedibile e scontata, “folle”, come avrebbe detto Carl Gustav Jung, “e significante”. Ed entrambi per me sono essenzialmente passione, alla lettera qualcosa “che subiamo” (in greco pathein) e che, tuttavia, benediciamo il Cielo di subire, perché ci scuotono, ci coinvolgono, ci donano entusiasmo e forza, in una parola ci fanno sentire “vivi”.
E allora, quando capita di innamorarsi perché si condivide con un’altra persona il tifo per la stessa squadra calcistica o/e perché si ammirano figure di giocatori e di allenatori che con le loro parole, le loro movenze, il loro carisma, sono destinati a lasciare una traccia profonda nel corso del tempo, il mondo ci appare un luogo più abitabile, sicuramente più divertente. Come succede a Cosetta nell’ultimo romanzo di Riccardo Lorenzetti, “L’amore ai tempi di Mourinho”, di cui viene riportata qui di seguito una delle pagine iniziali.
“La fama di quella mamma ingombrante fu quasi sempre motivo di imbarazzo, che in un paese si fa presto a farsi un nome. Cosetta rinunciò subito a qualsiasi velleità di brillare di luce propria. Così fu, fin da piccola, la “figlia della Mattoniera”. E quel nomignolo le rimase appiccicato come un tatuaggio. Certo, avrebbe potuto essere anche “la figlia di Ferruccio”. Ma Ferruccio non aveva mica la personalità straripante della moglie. Anzi, ne era distante come può essere distante un loft a Manhattan da un garage di Cuneo. Era, invece, un omino mite e silenzioso con un certo talento per passare inosservato. Uno tutto casa e lavoro del quale nessuno ricordava una battuta celebre, un gesto appena memorabile e neanche una partecipazione ad una pentolaccia. O a una tombola in parrocchia. Non entrava nel chiacchiericcio paesano nemmeno a spingerlo: né per una rissa dopo una discussione politica né per una caduta da motorino e non gli si conoscevano avventure galanti. E d’altronde, bastavano e avanzavano quelle della moglie. Come fu che il Padreterno li mise insieme, fa parte di quei disegni imponderabili che alcuni spiegano con il destino e altri con il calcolo delle probabilità. Probabilmente, invece, cercavano entrambi qualcuno che non disturbasse troppo e del quale poter fare anche a meno. Succedeva così, nei matrimoni di tanti anni fa. Di mettersi intorno una persona da vedere il meno possibile e di contarci solo per il minimo indispensabile. A Ferruccio faceva comodo un piatto di pastasciutta anche non tanto al dente, e qualcuna che glielo preparasse. Alla Mattoniera serviva un tipo poco sveglio che portasse due lire a fine mese”
Riccardo Lorenzetti, L’amore ai tempi di Mourinho, Urbone publishing, 2016
a cura di Francesco Ricci