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Gli incipit in poesia rivestono grande importanza: esibiscono una poetica, suggeriscono uno stile. Prendiamo in considerazione, ad esempio, i versi iniziali di alcune delle liriche che compongono l’ultimo lavoro di Rosanna Pavanati, “Mediterranea song”, pubblicato da Betti: “Sognavo il verde delle brughiere”, “Attenta cerco il punto preciso”, “Sfioro le corde / ideando un merletto”, “In me non rivive l’araldo di Ulisse”, “Ho ritrovato il mare smaltato di giada”, “Cerco il pastello celestino”, “Ho sempre sognato una terrazza”, “Sono stata Flaming June”, “Ho intrecciato dialoghi sottili”, “Ho scritto parole per i miei amori”. Cosa ci dicono nel loro insiemi questi incipit? Che l’io lirico (il personaggio che dice “io” e che non coincide mai completamente con l’autore in carne e ossa) possiede una centralità assoluta. Tutto ciò che entra a far parte della poesia – si tratti di uno strumento musicale, di un oggetto, di un’onda, di un lembo di cielo – appare costantemente filtrato attraverso la soggettività, delicata e sottilmente malinconica, del poeta (non amo la parola poetessa). Niente risulta più lontano dalle intenzioni (di certo dagli esiti) di Rosanna Pavanati di una poesia risolta nell’oggetto, nella quale, cioè, il fatto esterno assuma intera su di sé la responsabilità, secondo la linea Eliot-Montale, di evocare una determinata emozione. Da questo punto di vista, il catalogo di cose-fenomeni che i titoli consentono di redigere (“Il fagotto”, “Il cembalo e l’acqua”, “Vento di terra”, “Il balcone senza fiori”, “Il balconcino”, “Cielo d’agosto”, “Acini freschi”, “Coriandoli”, “Piuma di pavone”) può apparire fuorviante, a meno che non lo si interpreti non già come una asettica distribuzione di frammenti del reale all’interno di un tutto razionalmente ordinato – o che aspirerebbe ad essere razionalmente ordinato – quanto come l’individuazione di una serie di presenze che, una volta accolte dalla soggettività del poeta, paiono farsi ora la sua voce ora la sua emanazione. E anche l’ampio uso dell’indicativo imperfetto del verbo in “Mediterranea song” a me sembra andare in questa stessa direzione, suggerendo l’idea di una durata né oggettivamente misurabile né oggettivamente quantificabile, dal momento che essa rinviene non già nell’orologio o nel calendario, bensì nei moti del cuore, la propria autentica estensione. Certo, la strada che Rosanna Pavanati imbocca con questa raccolta non è quella di un anacronistico e onnivoro gigantismo dell’io alla maniera di d’Annunzio, quanto quella di un minimalismo dell’io, che non vuole né celare né celarsi le debolezze, i vuoti, le mancanze, le memorie dolci e infelici che lo connotano, al punto che, alla fine, semplicità e discrezione – anche nel significato etimologico di “vedere distintamente”, poichè siamo in presenza di una poesia eminentemente della vista – a me paiono le parole chiave per definire “Mediterranea song”, una raccolta che testimonia la raggiunta maturità dell’autrice milanese. La poesia che segue, “Corno inglese”, tratta dalla sezione intitolata “Orchestra”, costituisce il testo liminare.
“Sognavo il verde delle brughiere.
L’erica viola danzava
nei miei occhi bambini.
Nelle braccia
accarezzavo la volpe,
estraneo a me il pensiero della morte.
Ora respiro il legno annoso
del palco orchestrale.
Risuona nel teatro
al gesto del maestro
il suono fiabesco
del mio corno inglese”.
A cura di Francesco Ricci