Rosanna Pavanati, Raccontini allo zenzero e alla vaniglia

La verità abita nella superficie. La superficie di uno schermo di vetro, la superficie della coscienza, la superficie del terreno, la superficie della facciata di un palazzo o di una chiesa. È questo l’elemento – di natura estetica non meno che conoscitiva – che a me pare meglio definire l’ultima raccolta di racconti brevi di Rosanna Pavanati. Già il titolo, d’altra parte, “Raccontini allo zenzero e alla vaniglia”, che rimanda alla sfera sensoriale, nello specifico all’olfatto (il profumo intenso dello zenzero, il profumo delicato della vaniglia), suggerisce un rapporto con la realtà immediato e quasi prelogico, un rapporto, cioè, in cui il corpo è più importante della mente, l’intuizione conta più del ragionamento.

L’autrice ama incontrare il mondo (luoghi, persone, cose) e non c’è racconto nel quale non compia uno spostamento, un andare “verso” o “lungo”, si tratti di una passeggiata urbana, di un pellegrinaggio, di un viaggio. Un movimento, questo, che possiede certamente un valore reale, concreto, ma che è anche metafora dell’esistenza, in primo luogo dell’esistenza dell’autrice, pensata come un transito, il cui senso autentico non sembra risiedere né nella partenza né nella meta, ma nel percorso stesso, a patto che questo venga affrontato con una disposizione d’animo, a formare la quale l’attenzione contribuisce non meno della curiosità.

Infatti, solamente chi sa prestare attenzione ed essere curioso riesce a catturare la bellezza, carica di diletto e di significati profondi, che certi oggetti, magari i più minuti, o certi incontri, magari quelli meno previsti e meno prevedibili, che costellano il nostro cammino di vita, schiudono. Si pensi, a titolo d’esempio, alla conclusione di “Nel palazzo napoletano” (“Sulla superficie laccata spicca un gioiello: un corallo intagliato con un motivo floreale, montato su una perla scaramazza. Accanto c’è un fiore di fresia”) o a quella di “Occhi malati” (“Lui la consola accarezzandole i capelli e la guancia; lei si morde le labbra per asciugare le ultime lacrime. In lontananza la mamma, con un bimbetto in braccio, avanza nel prato in salita. Forse è lei che l’ha rimproverata”): il lettore avverte di non trovarsi in presenza della semplice mimesi della realtà, bensì si sente trascinato al cospetto della rivelazione della verità che la descrizione dell’oggetto o quella della scena contengono.

E anche la leggerezza (di cui l’ironia è componente essenziale) e la rapidità della scrittura di Rosanna Pavanati risultano perfettamente coerenti, a livello di stile, con l’atteggiamento – torno a dire, estetico non meno che conoscitivo – dell’autrice, che insegue la varietà colorata e multiforme del mondo, certa che, a un occhio attento, quale è il suo, la superficie delle cose lascia intravedere la verità che giace nel profondo molto meglio di quanto lo permetta un’immersione nell’abisso. Il libro è preceduto da un’illuminante prefazione di Vincenzo Coli, il quale si sofferma opportunamente sull’importanza che lo sguardo e l’arte di sottrarre, di levare, possiedono nell’opera di Rosanna Pavanati. Il passo che segue è tratto dalla “Nota dell’autrice”.      

“La domanda che più frequentemente viene rivolta a un autore è “Come sono nati questi racconti?”. Provo ad anticipare la risposta descrivendo qui il percorso di scrittura di questi brevi testi dal sapore volutamente minimalista. Mi piace sperimentare i vari generi letterari, così, ali momenti repentini dell’ispirazione poetica, ho alternato la stesura di racconti che inizialmente dovevano avere un’impronta umoristica. Sono nati “Quando suona la fanfara”, “Scusi, quel piede forse è mio” e “Trullo con Maya”, racconto, quest’ultimo, che mi sono divertita particolarmente a scrivere. Le protagoniste cercano maldestramente una fine gloriosa della loro vita travagliata nell’abbraccio con i frammenti di un meteorite che doveva cadere sulla Terra. Successivamente le esperienze vissute, anche le più semplici, o un’emozione avvertita improvvisamente come un aculeo nella pelle o, viceversa, come un dolce licore da assaporare lentamente mi hanno portata a una svolta nella scrittura, lasciando sempre più spazio ai sentimenti. È così che i testi, pur conservando una loro leggerezza e talvolta qualche spunto umoristico, hanno assunto, senza che io ne fossi consapevole, la forma di un diario alimentato da esperienze e osservazioni personali. La mia passione di creare essenze profumatorie, anche se in maniera amatoriale, mi ha suggerito di attribuire ai racconti un profumo che inviti a ricordarli: quello intenso e frizzante dello zenzero sottolinea gli aspetti umoristici; l’aroma delicato della vaniglia pervade invece i testi più sentimentali”.

Rosanna Pavanati, Raccontini allo zenzero e alla vaniglia, Betti, Siena 2021