Estremo e delizioso frutto della letteratura postmoderna, “Virgilio e il poema dei campi” è, prima di tutto, un grande gesto d’amore. Nei confronti di chi o di che cosa? Per rispondere alla domanda è necessario partire dalla centralità che possiede nel romanzo – o fabula fantafilologica come lo denomina l’autore – la figura del poeta latino Virgilio, del quale vengono con amore ricostruiti e narrati gli anni compresi tra il 37 e il 29 a.C. In questo arco temporale prende poco alla volta corpo il progetto delle “Georgiche”, “il poema dei campi” in quattro libri che venne recitato a Ottaviano nel 29 a.C., nella città campana di Atella. Fin qui la storia, fin qui quanto ci viene tramandato da biografi e grammatici. Ma il vero storico, in “Virgilio e il poema dei campi”, coesiste con la fantasia, la quale preme, reclama, ottiene per sé nell’opera uno spazio non inferiore. E così accade che il finale del quarto libro delle “Georgiche”, la celebre “favola di Aristeo”, lo si immagini non recitato, bensì rappresentato in forma di pantomima, non senza note e bozzetti di scena. Ci troviamo, dunque, in presenza di un romanzo storico, dove vero e verosimile coesistono senza apparenti ed evidenti frizioni. Proviamo, a questo punto, a dare una risposta all’interrogativo posto in apertura. “Virgilio e il poema dei campi” è un grande gesto d’amore nei confronti di chi o di che cosa? Sicuramente di Virgilio, poeta che Sandro Biotti conosce benissimo e del quale ha commentato in modo magistrale il quarto libro delle “Georgiche”.
Della letteratura latina e della letteratura greca, materie che Sandro Biotti ha insegnato a lungo, le quali vengono saccheggiate, menzionate, citate sapientemente, e la stessa cosa potrebbe dirsi per tanti altri ambiti legati allo studio dell’antichità. Di tutti coloro che, allievi e colleghi, condividono o hanno condiviso la passione per il mondo classico, meraviglioso scrigno le cui pietre non solo rifulgono di bellezza, ma anche di saggezza, e che la nostra epoca, priva come si ritrova a essere tanto dell’una quanto dell’altra, non può osservare senza provare un senso di struggente nostalgia. Soprattutto, però, “Virgilio e il poema dei campi” a me pare un atto d’amore nei confronti della Letteratura tout court, di quella antica come di quella moderna. Sarebbe impossibile ricordare gli autori che nel libro sono citati, parodiati, ripresi, riecheggiati, come sempre accade nella letteratura postmoderna, da Eco a Tabucchi, da Consolo a Malerba, da Lodge a Cortάzar. Ciascuno di loro è un “bricoleur”, ciascuno di loro eccelle nell’arte di leggere, separare, ricomporre combinare (lacerti, tessere, dettagli, pericopi, versi, emistichi), ciascuno di loro pratica una sapiente scrittura di secondo grado. E ciascuno di loro affronta il rischio (senza, però, fare drammi, che non si addicono a chi scrive dopo la fine delle rovine) di un’opera coltissima, formalmente curata, divertente, intrigante per il lettore che riconosce gli elementi allusivi presenti nel testo, però fredda. In sostanza, un’opera di carta e d’inchiostro.
Ma Sandro Biotti, che conosce il pericolo che si cela nella sua operazione e nella strategia narrativa da lui attuata, riesce a evitarlo attraverso la memoria. Non già la memoria letteraria, naturalmente, ma la memoria personale, recuperando, cioè, quel grumo di sensazioni, impressioni, emozioni, che furono di Virgilio non meno che di tantissimi uomini e non meno che dello stesso autore. In quest’ottica, il quarto capitolo della prima parte, intitolato “Andes: le opere, i giorni e la memoria”, riesce a dare splendidamente voce al comune sentire di chi ritorna nei luoghi della propria infanzia e scopre che ciò che ritrova è sempre meno di ciò che vi aveva lasciato. Il libro è arricchito da una acuta prefazione, che unisce sensibilità a cultura, di Sabrina Pirri. Il passo che segue è tratto dal capitolo iniziale.
“Era ormai la seconda vigilia inoltrata del 3 di dicembre dell’anno 37 a.C. e Virgilio si trovava ancora nello studiolo della dimora che Mecenate gli aveva messo da tempo a disposizione sull’Esquilino, a due passi dal suo magnifico palazzo, quando, all’improvviso, si udì bussare alla porta tre colpi forti, decisi, come si bussa in una casa dove si sa di non essere attesi. Il poeta era immerso nella lettura del sesto libro del poema di Lucrezio e sopra la scrivania, alla sua destra, teneva anche un rotolo di Tucidide: studiava al lume di una fioca lucerna i passi dedicati alla peste di Atene e sulla tavoletta cerata buttava giù appunti frettolosi, annotando alcuni dei mirabili versi del poeta a lui tanto caro, ispirati dallo storico greco. Era talmente concentrato nel suo lavoro che non fu distratto da quei colpi sempre più insistenti. Ad aprire la porta si precipitò Cebete, un giovane servo, dotato di una buona cultura e apprezzato da Virgilio. Balzato giù dal letto, in fretta e furia indossò la tunica, si buttò sulle spalle una mantellina di lana e, calzate le pianelle di feltro, corse finalmente ad aprire. Ancora insonnolito e confuso com’era, ebbe il suo bel daffare col chiavistello interno, ma appena la porta si dischiuse un po’, riconobbe subito nello spiraglio la figura che si celava sotto un mantello di preziosa lana di Mileto. In preda all’imbarazzo e allo stupore, accennò ossequioso a un inchino, e fu subito pronto ad accompagnare dal padrone l’ospite inatteso, che però con un balzo gli si parò davanti e svelto, attraverso il corridoio buio, puntò dritto verso lo studiolo senza bisogno di nessuna scorta”
Sandro Biotti, Virgilio e il poema dei campi, Betti, Siena 2012
a cura di Francesco Ricci