C’è stato un tempo nel quale la letteratura di viaggio serviva a far conoscere ai lettori paesi e luoghi lontani. I libri di Alberto Moravia e di Mario Soldati, di Alberto Arbasino e di Italo Calvino stanno lì a ricordarcelo. La difficoltà di raggiungere terre distanti da noi, difficoltà legata ai costi, all’incerta situazione politica dei posti dove avremmo desiderato recarci, al perdurare di una mentalità ancora piuttosto provinciale e diffidente nei confronti dell’altro da sé (“Hic sunt leones”), poteva essere superata grazie a coloro che, magari per conto di un giornale o di un periodico, raccontavano quanto avevano visto di persona, così come secoli prima aveva fatto il greco Erodoto.
L’immaginazione, poi, compiva il resto, colmando lacune e omissioni, più o meno consapevoli, presenti nella narrazione. Ma nell’epoca di Internet, quando il mondo intero può essere conosciuto gratuitamente e standosene comodamente seduti dietro a una scrivania, per mezzo di immagini e di video, ha ancora senso descrivere luoghi, usanze, riti, riportare conversazioni fatte o ascoltate, narrare avventure realmente accadute? Avendo tra le mani l’ultima fatica di Silvio Ciappi, “Coca Travel. Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rote dei narcos”, non posso che fornire una risposta affermativa a questa domanda. Certo che si può continuare a fare buona letteratura di viaggio, a patto, però, che si sappia che ciò che veramente conta – ciò che il pubblico chiede – non è la rappresentazione oggettiva dei fatti e dei luoghi (per quello c’è la Rete, per quello ci sono i servizi giornalistici), bensì è il possedere (e regalare) uno sguardo altro, profondo e per nulla scontato o di maniera, su quanto costituisce prima elemento di esperienza, poi materia di scrittura.
Il passo che segue, tratto dal primo capitolo, mostra bene come per Ciappi ogni viaggio, fosse pure quello lungo le rotte dei narcos, è sempre generato dal desiderio di conoscere, richiede la più grande disponibilità al confronto con l’alterità, si traduce nella “formazione-maturazione” di chi lo compie: chi ritorna a casa uguale a quando è partito, ha camminato, ha preso un aereo, ha guadato un fiume, ma non ha viaggiato. Ogni autentico viaggio, infatti, comporta un mutamento in noi.
“Lagos? Medellin? Bogotà? Ma sei pazzo!? E per quanto tempo dovresti starci? Non sono bei posti”. “Ma a me piacciono, proprio per questo!”. “Per questo cosa?”. “Perché non sono bei posti”. “Per me sei pazzo!”. Dopo una conversazione così sai che non c’è spazio per la mediazione, sai che tu e l’altro confluite su certi argomenti da due latitudini diverse. D’altronde c’è gente che ha una precisa idea del bello, del giusto e del vero. Io no, sono sempre stato un po’ bastian contrario e ho sempre pensato che “stare dalla parte sbagliata fosse un modo essenziale per capire come vano le cose”. Quante volte me lo sono detto, quante volte questa pseudo-credenza è divenuta una specie di alibi per immischiarmi nelle situazioni più disparate, a contatto con persone al limite, per vivere in luoghi improbabili, per infilarmi con l’avventatezza del segugio in situazioni professionali ad alto rischio, anche di incolumità fisica. Questo specie di mantra è stato anche un mezzo per non nutrire aspettative illusorie, e far sì che potessi incontrare il mondo senza il carico di pregiudizi che di solito ti impalla e ti fa vedere male le cose che ti circondano. Dimenticare da quale parte stia il torto o la ragione ha anche significato sognare di lasciar casa per andare lontano, in luoghi e situazioni dove niente mi potesse ricordare la normalità, in posti dove spesso vivere è solo un lusso.”
Silvio Ciappi, Coca Travel, Oltre edizioni, Sestri Levante, 2016
a cura di Francesco Ricci