Se gli anni Settanta e Ottanta hanno registrato un rinnovato interesse per il romanzo storico, come testimonia il successo di scrittori quali Consolo (“Il sorriso dell’ignoto marinaio”), Eco (“Il nome della rosa”), Vassalli (“La chimera”), gli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio, invece, come ha di recente ricordato anche Claudio Giunta, hanno tratto materia d’ispirazione (e continuano a trarla) dal presente, dalla cronaca nera, da storie realmente accadute. Un esempio tra i tanti, in questo senso, ci viene offerto da “L’Erede”, il romanzo che Gianfranco Bettin ha scritto ripercorrendo la vicenda di Pietro Maso, o da “Uomini e caporali” di Alessandro Leogrande, dedicato alle penose condizioni di lavoro dei raccoglitori di pomodori in Puglia.
L’ultimo lavoro della palermitana Simona Merlo, intitolato “SessantunoChiodi. Mistero e morte in Toscana”, a me pare che si possa inserire a pieno titolo all’interno di questa “scrittura di frontiera”, che tende a rendere impercettibile la linea che separa la realtà dalla finzione, il giornalismo dalla letteratura, l’inchiesta dal romanzo. Un’inclusione resa possibile – quasi obbligatoria – per due ragioni. La prima attiene ai contenuti, la seconda allo stile. Da un lato, infatti, le vicende che vedono coinvolti i cinque giovani coinquilini di un appartamento di via dell’Agnolo, a Firenze (“l’insegnante di yoga sempre sorridente; una coppia perennemente in crisi; un post-laureato insoddisfatto e Nasif”), conservano tracce evidenti e consistenti di fatti di cronaca tragici, che hanno avuto luogo in anni recenti, in particolare nelle regioni del centro e del nord Italia, e che si sono originati da una letale commistione di culto della violenza (gratuita), di passione per l’occulto, di appartenenza a una setta. Dall’altro, la forma appare fortemente semplificata: la sintassi è eminentemente paratattica, il ritmo è veloce, i dialoghi sono scarni ed essenziali, il lessico arieggia il parlato e, a tratti, il gergo giovanile. Il passo che segue, tratto dal capitolo intitolato “La moglie è sempre l’ultima a saperlo”, esemplifica bene quanto finora detto.
“Le giornate avevano ripreso il ritmo di sempre. Quasi per tutti. Università, lavoro, palestra. Era il dialogo tra loro a non essere più lo stesso. L’argomento tabù, specie in presenza di Federico, era Gianni: in modo accorato e senza dare alcuna spiegazione difendeva il diritto dell’amico a essere sparito. “Chi siamo noi per controllarlo: i suoi genitori, i suoi tutori? Ci deve qualcosa?” era solito dire appena si toccava l’argomento. Poi troncava la discussione in modo tanto risoluto e aggressivo che a nessuno veniva in mente di chiedergli altro. Anna, del resto, aveva scelto il silenzio. Sembrava stesse rimuginando su qualcosa di così importante da non potersi permettere alcuna distrazione. Aveva ripreso a lavorare in città. Qualche volta veniva chiamata ad hoc per i nuovi arrivi. Spesso cercava conforto tra le braccia di Nasif. Sempre più spesso però si chiudeva nella sua stanza e non parlava con nessuno. Un pomeriggio si ritrovarono in casa lei e Federico. Era caldo. Una temperatura fuori stagione che li aveva costretti ad aprire tutte le finestre in cerca di un filo d’aria. Persino respirare era faticoso. Lasciarono chiusa soltanto la stanza dei chiodi. Federico, combattuto oramai da giorni tra il volerle dire la verità e mantenere il segreto, ruppe il silenzio. “Anna io ti devo fare delle confidenze; ho bisogno però che tu mi prometta una cosa”. “Dimmi Federico”. “Non chiedermi di più di ciò che ti dico”. “Puoi benissimo non dirmi nulla. Non devi tradire un amico. So che tu sei a conoscenza di qualcosa che riguarda Gianni”. “Non solo. Riguarda anche te”. “Cioè?”. “Siediti, ti prego. Quando siamo rientrati dall’agriturismo, io ho incontrato Gianni: era sconvolto ed assente”.
a cura di Francesco Ricci
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